Prendiamo la classifica di vendita dei dischi di Feltrinelli dell’ultima settimana. Recita così: l’ultima raccolta di De Andrè al primo posto, poi Vasco e Baglioni. Quarta Madonna, quinto Robbie Williams. Poi Renato Zero, Tiromancino, Anastacia, Laura Pausini e Michael Bublè. E fanno dieci. Seguono Enya, Green Day, Eurythmics, Eminem e Ramazzotti. Otto dei primi quindici album sono stranieri.
E questa settimana va piuttosto bene, perché ai primi tre posti ci sono tre italiani: le rappresentanze straniere non hanno di solito nessuna difficoltà a salire sul podio. Nessuna rivendicazione autarchica beninteso: la musica straniera è benvenuta. Ma le classifiche che si succedono lungo le settimane ormai da anni denunciano alcune fragilità culturali.
La prima può consistere nella presenza così massiccia di artisti stranieri. La percezione negativa di questo fenomeno naturalmente è del tutto relativa e non costituisce un vero problema in sé. La musica straniera è un arricchimento e stabilire una quota che desidereremmo entrasse nelle nostre case è questione di apertura soggettiva alla diversità.
E’ un altro l’aspetto problematico: la totalità degli album stranieri che questa settimana sono nelle posizioni di testa è di lingua inglese ed è nordamericano o britannico. Su questo punto, diversamente da prima, questa settimana siamo sfortunati: di solito almeno qualcosa in lingua spagnola o francese capita di trovarlo.
Ma la sostanza resta: niente Sud America, niente Asia, niente Africa o Medio Oriente. E di arricchimento – emotivo per gli ascoltatori o musicale per il sistema – non possiamo parlare più.
La preminenza culturale dei prodotti anglofoni sui nostri mercati è un fatto ormai pluridecennale. Oltre il 60% dei film proiettati oggi nei nostri cinema è americano; nell’editoria i nomi di molti autori di best seller stranieri suonano come Brown, Follett, Grisham, Crichton. Una presenza culturale che riposa prima di tutto sul primato commerciale che le realtà anglosassoni hanno conquistato.
Produzione, distribuzione e promozione sono realizzate con strategia scientifica e aggressiva. Ci fermiamo prima di approdare al consueto “vince la cultura di chi ha più soldi”, che sarebbe la base inevitabile di qualsiasi dibattito sul tema.
Ci fermiamo anche perché c’è un'altra realtà che emerge. Ed è qui che volevamo arrivare. Una tale diffusione delle canzoni straniere ha anche un altro significato. Del testo delle canzoni non c’importa granché. Non lo capiamo nella grande maggioranza dei casi, o se siamo in grado di capirlo pare non interessarci molto. La grande maggioranza degli acquirenti di musica sono giovani, spesso giovanissimi.
In molti casi queste persone non conoscono l’inglese, o lo conoscono male. Quand’anche lo conoscessero raramente si impegnano davvero a capire il senso del testo che ascoltano. E spesso nel caso degli album d’alta classifica si tratta comunque di testi dotati di scarso spessore. Vedi Madonna, Anastacia, Green Day.
Semplificando si può dire che mentre la componente musicale dei brani (melodia, ritmo) fa immediato appello all’emotività, la parte testuale impegna di più la comprensione razionale. Naturalmente anche il testo ha una forte valenza emotiva, ma richiede uno sforzo in più, soprattutto nei casi in cui abbia una particolare densità, come succede per la storica canzone d’autore italiana. Ma questo sforzo in più è ripagato.
Chi si “concentra” sul testo, chi cerca di cogliere il senso completo di un brano musicale avrà un’esperienza emotiva più ricca e gratificante, proprio perché più complessa. Il testo e la melodia, quando la canzone è congegnata bene, si richiamano, si rincorrono, si completano. E passano un messaggio più intenso.
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