Il camminare ci appartiene, come gli uccelli volano. Ma spesso ci sorprendiamo a dimenticarlo. Altre volte dimentichiamo persino di sorprenderci a dimenticarlo. E non camminiamo più.
Preferiamo la seduta anatomica di poltrone in bilico su pneumatici pronti a scivolare sull’asfalto. Preferiamo scivolare, lasciarci scivolare. Dal retro dei nostri schermi, delle nostre scrivanie mentali finiamo per pensarci come essenze prive di involucro, il corpo è quasi un ingombro, l’ereditario fardello di una specie che cel’ha lasciato per continuità nel tempo. Dimentichiamo di essere uomini.
‘Il mondo a piedi’, oltre ad essere un elogio della marcia, è un invito. A uscire fuori, a calpestare con piede i sentieri che ci circondano, vicini e lontani, conosciuti o da scoprire, materiali o spirituali, naturali e urbani. Camminare per il gusto di farlo. Dedicarsi alle asperità reali che ci si impongono sotto i piedi. Camminare e basta. Contro la fretta, contro gli imperativi sociali eletti a dettami di uno stile di vita.
Le Breton ci racconta di quello che siamo, di una conquista bio-sociale vecchia milioni di anni, che per destino o per scherzo ancora oggi è il nostro indispensabile identificativo naturale. La posizione eretta, la liberazione della mano, del viso, tutte le conseguenze che questo ha comportato per un’articolazione comunicativa ed una manipolazione dell’ambiente esterno sempre più complesse, ci ha distinto dal restante regno animale, ha caratterizzato lo sviluppo della nostra conformazione cerebrale, ci ha resi uomini, esseri pensanti in quanto tali.
Perché farne a meno ora?
‘Dal Neolitico in poi, il corpo, le potenzialità fisiche, la capacità di resistenza dell’uomo di fronte ai dati mutevoli dell’ambiente sono rimasti gli stessi. Malgrado l’arroganza di cui le nostre società si rendono deprecabilmente colpevoli, noi abbiamo le stesse facoltà di cui disponeva l’uomo di Neandertal’ ci svela l’antropologo francese in una delle prime pagine del piccolo volume, quasi fosse un mistero. Non possiamo prescindere dal camminare e pretendere di essere uomini, pensanti, dotati di intelletto e portatori di conoscenza. E qui per camminare si intende quella facoltà che se prima era prerogativa indispensabile alla sopravvivenza, oggi ha assoluto bisogno di essere riscoperta come necessità di una vita autentica e votata al piacere.
Riscoperta che può avvenire nei modi più svariati. Le Breton non fa che tracciare alcuni dei possibili itinerari, posti ad esempio di un’infinità di percorsi, luoghi, motivi, attraverso cui la nostra creatività può tessere poi nuove trame. La solitudine morbosa di intellettuali persi e felicemente sfiniti dalle strade della natura. Camminare come stimolo al pensiero, alla conversazione, fonte di conoscenza. Le marce estreme dei passati avventurieri, malati di amore per l’oltrepassare con le proprie forze le frontiere geografiche. Le ferite, il sonno, il silenzio, il canto. Le lunghe marce immobili di ciechi e prigionieri pronti a trascendere il percorso finito ingannandosi con una finzione. Scrittori vagabondi di villaggi alla ricerca di soggetti da raccontare. L’obliquità sociale del viandante, che ‘taglia i luoghi comuni in diagonale, inventa i propri passi’ consegnandosi ad una sorta di ‘clandestinità’. E ancora le città, il ritmo delle loro assurde andature, e poi la quiete dei pellegrinaggi tibetani, o quelli greci sul monte Athos.
Citazioni ed esperienza, questo nelle pagine. Poche parole, quelle giuste, pronte ad essere spostate, reinventate in nuovi contesti. Ora tocca a noi. Finiamo di leggere e cominciamo a camminare.
Amare l'arte è benessere
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