La prima metà del Novecento, attraversata da due guerre terribili, portatrici di lutti, fame e miseria, non poteva non interrogarsi in modo nuovo sulla realtà, fornirla di un linguaggio più adatto, esprimerla in modo più adeguato. Quello che arriva sulla tela è l’emozione, è l’inconscio, è l’anima con i suoi labirinti e le sue profonde angosce. E’ arrivato anche Freud e la psicanalisi: l’opera è diventata uno strumento di conoscenza del proprio Io, una porta d’accesso al lato visionario, surreale.
Il mondo non è più solo quel che è ma diventa simbolo: ogni oggetto è anche un’idea, un portatore di significati, una tessera nel puzzle della propria coscienza.
La seconda metà del Novecento fa piuttosto i conti con il boom economico che determina una nuova geografia del benessere, un nuovo modo di concepire l’individuo. Nasce la pittura come cosa viva, come azione. La realtà non è più nemmeno rappresentata ma trasposta direttamente in forma d’arte. La realtà entra nel quadro, sulla parete, viene esposta. Gli si da’ valore artistico senza alcun filtro. E viene così implicitamente indagata, interrogata, respinta.
Le immagini di Warrol, ripetute in serie infinta, altro non sono che una grande intuizione e anticipazione di un’epoca in cui la comunicazione di massa non fa che riproporre indefinitamente messaggi identici –o che apparentemente lo sono- fino all’anestetizzazione dell’osservatore. Si diventa indifferenti, insensibili. L’oggetto neutralizza la volontà dell’uomo, e l’individuo non è diventato che un consumatore di cose, pubblicità inclusa.
C’è troppo da dire su questa mostra per non andarla a vedere. E per chi non può arrivare a New York –sede del museo Guggenheim- c’è sempre Venezia. Il Palazzo Venier dei Leoni sul Canal Grande -già abitazione di Peggy Guggenheim- ospita una sua personale collezione di opere europee e americane, tra le più importanti del ventesimo secolo.
Amare l'arte è benessere
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