Cominciai allora a telefonare ai “pizzardoni” di zona, ma anche qui il telefono squillava beatamente senza alcuna risposta. Provai ostinatamente tutti i numeri disponibili in elenco senza successo e anche la carta Comune questa volta non funzionò. L’impiegato comunale però mi assicurò che, passando personalmente, avrei di certo trovato qualche vigile, dal momento che questi hanno l’obbligo di “vigilare” 24 ore su 24.
A quel punto però decisi di lasciar perdere e abbandonare il barbone al suo destino: in fondo se aveva deciso di soggiornare lì perché tentare di spostarlo?
I giorni passavano ed io mi ero ormai abituata a trattenere il fiato per gli ultimi cinquanta metri prima del portone, ormai avvolti da una specie di nube tossica irrespirabile, quando un giorno, con mia grande sorpresa, scoprii che la sedia e i giornali erano spariti, e con essi l’ormai mitico barbone.
Cominciai a sperare che l’avessero accolto in qualche bella casa di cura, dove avesse potuto riscoprire l’ebbrezza di un bel bagno e di un letto pulito, di cure adeguate nonché magari di qualche nuova testata giornalistica da consultare, e mi cullai in questi piacevoli sogni.
Macché. Qualche tempo dopo ho scoperto che il mio amato-odiato barbone si era solo trasferito su una panchina della piazza vicina, secondo il più classico dei clichè, e i giornali che leggeva di giorno di notte diventavano coperte e cuscini.
Povero barbone. Forse ha scelto di vivere così, forse non sta bene. Chissà. Ma io spero ancora in un mondo dove per soccorrere un barbone non debba intervenire la nettezza urbana, ma infermieri e assistenti sociali e dove nessuno si ritrovi a vivere in una cabina telefonica.
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