L’espressione “autonomia dalla famiglia”, riferita ai giovani, sembra essere la più frequente nella stampa quotidiana degli ultimi giorni. Forse qualcuno comincia ad accorgersi che la piaga sociale del nostro mondo per bene è quella di aver agevolato l’incremento di nuove generazioni destinate a marcire nella stasi del nucleo d’origine.
Questo in Italia è particolarmente evidente: prima dell’autonomia in generale, i giovani ventenni e trentenni faticano a conquistare un’indipendenza economica stabile nei confronti dei genitori, a meno che non decidano di interrompere ogni tipo di formazione e dedicarsi a lavori poco qualificati ma sufficientemente remunerativi.
La necessità di dare spazio ai giovani, in particolare a partire da finanziamenti concreti, si fa sentire in modo sempre più forte, e mentre in Italia la maggior parte dei lavoratori si interroga sulle sorti del proprio trattamento di fine rapporto (Tfr), e il governo zoppica giustificandosi riguardo alle previsioni di pensioni invisibili per le nuove generazioni, gli altri Paesi riflettono su politiche in grado di garantire ai neo-nati di oggi un futuro mediamente stabile.
Come a dire, il buongiorno si vede dal mattino.
Stiamo parlando di politiche che puntano sul capitale umano, quindi molto spesso riguardanti le famiglie ma soprattutto i ragazzi. Investimenti sociali, per intenderci: da noi quasi perle rare. Così, da qualche anno a questa parte, all’interno di un più generale dibattito internazionale sulla riforma del welfare ha preso piede l’idea della dote di capitale, a Londra “baby-bond”.
In poche parole si tratta di mettere a disposizione di ogni nuovo nato un fondo aperto dallo Stato e integrabile dai genitori nel corso degli anni, finché, giunto alla maggiore età, il soggetto in questione non si troverà con una base economica concreta su cui poter contare per compiere le prime scelte importanti (comprare una casa, proseguire gli studi, auto-munirsi per il lavoro, viaggiare).
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