Un giorno di un gennaio a Dakar, Senegal.
Era circa l’ora di pranzo, quasi le due del pomeriggio. La giornata molto calda, assolata, estiva, ma , tuttavia, non si stava poi male: spesso soffiava una leggera brezza e, soprattutto, il calore era secco.
Mi trovavo nella centralissima Place de l’Indépendence, sotto i portici che si trovano sulla sinistra, prima della sede della Chembre du Commerce. Ero arrivato da Avenue du President Leopold Sedar Senghor, dove c’è la residenza Presidenziale, un magnifico palazzo bianco in stile coloniale, con un bellissimo giardino ben tenuto e le guardie all’ingresso, le quali, pur essendo loro vietato, si lasciano fotografare volentieri, assumendo un aspetto il più decoroso ed importante possibile (salvo poi chiederti una copia della foto).
Sembrava di essere in una via centrale di Milano, sia per il traffico, caotico come sempre (tranne la domenica mattina, come a Milano), sia per l’aspetto che Dakar ha in quella piazza: insegne luminose, negozi, banche, palazzi alti che sembrano moderni, qualche fast-food in cui si può mangiare il buonissimo “chawarma”, agenzie di viaggio. Anche la gente ha un aspetto abbastanza milanese: molte persone sono vestite all’occidentale, con giacca e cravatta, sembrano molto indaffarate, camminano di buon passo, ci sono ragazzi e ragazze vestiti bene, con jeans e maglietta o camicia.
Nessuno sembrava accorgersi di me, bianco. E di questo, devo essere sincero, ero un po’ felice. Già, nessuno. Nessuno o quasi. All’improvviso un tizio piuttosto alto e robusto che cammina verso di me incomincia a sbracciarsi e gridare “Ehi, italiano!”, in un modo che mi ricordava un film di Salvatores. Mi chiedo se ce l’ha con me. Mi giro, mi guardo attorno: sono l’unico bianco, l’unico “toubab”. Quindi, quel suo caro amico italiano sono io. Ma lui chi è? Lo conosco? Mi sembra di no. Anzi, ne sono sicuro: mai visto prima. “Eh, italiano, come stai?”. “Bene, grazie”, e tiro avanti, cercando di evitarlo, tanto so già cosa vuole da me: soldi, un cadeau o portarmi da qualche parte. Ma lui insiste. “Ehi, italiano, aspetta. Di dove sei?”. “Ma ho proprio la faccia da italiano?”, pensai. “Sono di Vigevano”, sicuro che non la conoscesse. E invece no. “Ma che bello. Io sono di Magenta, e venivo a Vigevano a fare il mercato”. Non potevo crederci. E cosa vuol dire “Sono di Magenta?”: non è di Dakar? Mah?!?.
Intanto mi afferrò la mano, fermandomi, comunque senza forza, quasi con persuasione. Mi prese la mano destra e la strinse nella sua, per salutarmi. Quando la tirai via, mi lasciò tra le dita un “grie-grie”, un amuleto porta fortuna, secondo lui. Lo rifiutai (me ne avevano già rifilati due in cambio di soldi….) e glielo ridiedi, lui insistette e me lo ridiede: “Ti prego, accettalo. Se lo rifiuti porterà male a mio figlio!”. Era almeno la quarta o quinta volta che sentivo questa storiella.
Improvvisamente, nella nostra “piacevole” conversazione si intromise un altro passante qualificandosi come poliziotto: “Cosa succede qui?”, con quella pacatezza tipica dei senegalesi, e , così dicendo, mi mostrò per meno di un secondo un tesserino che sarebbe dovuto essere quello della polizia ed una pistola alla cinta.
Il mio primo interlocutore non sembrava per niente perturbato né sorpreso della situazione. Anzi. Ripeto: il tesserino e la pistola furono mostrati solo a me. Il poliziotto, allora, mi chiese i documenti, che non avevo con me. “Ah, mais ca c’est grave! On dois tuojours avoir le passeport.». Mi fece la paternale, dicendo che i suoi connazionali, in Italia, se senza documenti, vengono rimpatriati. Mi chiese cosa avessi con me, di mostrargli il contenuto del mio marsupio. Nella prima tasca non avevo più di 3-4000 franchi CFA (qualche euro). Ma lui, con lo sguardo da falco, mi ordinò di aprire anche la seconda tasca, nella quale tenevo l’equivalente di 40 euro. Adesso entrambi conoscevano l’ammontare dei miei averi. Il poliziotto disse che, dato che non avevo i documenti con me, avrei dovuto seguirlo alla centrale di polizia per accertamenti.
Ci incamminammo, lui davanti ed io dietro, tra la folla: mi sarebbe stato facile fuggire, ma la curiosità di vedere come sarebbe andata a finire era molto forte. L’altro, intanto, gridò: “Italiano, vuole solo dei soldi: daglieli!”. Ma che bel consiglio…Ad un tratto, il poliziotto si voltò verso di me e chiese, spudoratamente, cosa avremmo dovuto fare. Gli risposi che non lo sapevo, era la mia prima volta in Senegal, e, certe cose, non sapevo come funzionassero. Mi portò, allora, in un vicolo, alle spalle della camera di Commercio. “Bon, dammi 35.000 franchi!”. “Ah no, non è possibile. Mi servono: devo pagare il taxi e l’albergo. Facciamo 5000”. “Ah, lei mi vuole offendere.30.000”. “No, 6000”. Insomma, incominciammo a contrattare il prezzo della mia libertà. Andammo avanti così per circa un quarto d’ora e, devo dire, comunque in modo piacevole, quindi ci sedemmo e cominciammo a chiacchierare. “Lo sai che anche mio fratello in Italia è un poliziotto?”. “Ah, bon? E gli piace?”, e poi domande del tipo da quanto tempo sono in Senegal, a Dakar, cosa faccio, ecc.
Insomma, alla fine gli diedi 5-6 euro. Ci salutammo, ci stringemmo la mano ed io, addirittura, lo ringraziai. Quando fui solo e ripensai all’accaduto mi chiesi perché mai lo ringraziai. E mi misi a ridere.
Viaggiare con i 5 sensi è benessere
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