Quando dissi a Mansoure che sarei andato in Senegal, a Dakar, se ne felicitò molto: “Eh, vedrai come è. E' molto diverso dall’Italia”. Di questo ne ero convinto anche io. Allora gli dissi che, se avesse voluto, sarei potuto passare dalla sua famiglia, sarei andato a trovarla, a portare i suoi saluti, a dire che stava bene. Dapprima fu un po’ titubante, ma poi mi diede il suo indirizzo: Guediawaye, quartiere Fith Mith, villa n° …. (non ve lo dico, privacy) e il nome della madre.
Così, una mattina, andai sulla VDN ed aspettai un taxi. Non a lungo. Se ne fermò uno, contrattai sul prezzo della corsa e partimmo. In realtà non ero troppo convinto che l’autista sapesse dove andare precisamente, ma mi feci trasportare. Ci lasciammo alle spalle il quartiere Foire, Yoff, andando verso nord. Ad un certo punto abbandonammo la strada asfaltata (che svoltava verso destra) e tutto il suo traffico e prendemmo una strada semi sterrata, con buche molto profonde, che costeggia il mare.
Viaggiavamo tra l’oceano a sinistra e case a destra, praticamente sulla spiaggia (comunque larga un centinaio di metri se non più) in direzione “Guediawaye”. Eravamo nella classica periferia di Dakar. Centinaia di persone in giro, bambini che giocavano al pallone, carretti carichi di mercanzia, ma poche auto in circolazione. Il sole era forte, caldo, generoso come sempre da queste parti. Il mare di un bellissimo azzurro che invitava a fare il bagno, ma nessuno lo faceva. Le onde straordianrie, sostenute da un vento energico, vivo.
L’autista, dotato di occhiali da sole “Ray-Ban” (veri?) a goccia, conduceva l’auto tra un buco e l’altro, schivando i pedoni e i carretti in mezzo alla strada. Sembrava sapere il fatto suo. In macchina si ascoltava musica senegalese, allegra ed ottimista, come il suo questo popolo, pieno di problemi eppure così fiducioso nel futuro, inchallah.
Con l’autista mi faceva un po’ da cicerone: “Ehi, toubab. Ici c’est Cambèrene 1”. Poi arrivammo Cambèrene 2, perdendo di vista il mare. Passammo poi dietro il campo da golf e ritornammo a godere della vista del mare, arrivando, finalmente, a Guediawaye.
Notai ancora le onde, che mi sembravano veramente grandi. Qui la strada era asfaltata e trafficata: soprattutto car rapide. I taxi non erano molti: già, chi se ne poteva permettere uno a Guediawaye, cittadina popolare alla periferia di Dakar?
Adesso dovevamo trovare il quartiere di Fith Mith. L’autista chiese. Che fortuna, eravamo proprio qui. Lo stavamo percorrendo senza saperlo: Fith Mith stava alla nostra destra e alla nostra sinistra. Ed ora il bello: trovare la casa. Uscimmo dalla strada principale e ci inoltrammo all’interno. Chiedemmo a più persone, senza risultato. Le vie erano fatte di sabbia, l’auto (l’unica che vedessi in giro) faceva fatica ad avanzare. Anche qui gente da tutte le parti, bambini che correvano e giocavano, giovani che parlavano, molti indossando il babur, altri vestiti all’occidentale, con jeans e maglietta o camicia, moltissime case in costruzione, i cui lavori sono spesso finanziati con i soldi mandati dagli immigrati (anche clandestini) in Europa. Mansoure era uno di questi.
Alla fine qualcuno ci indicò la villa. Villa? Qui le abitazioni consistevano in caseggiati simili a quelli che ci sono nei paesi in Italia, che si affacciano sulla strada, con dei portoni o delle semplici porte d’ingresso, ad uno o massimo due piani. Il portone era aperto. Io e il tassista (che decise di seguirmi nella cosa) entrammo. Ero curioso: fino ad allora non avevo ancora visto una casa popolare senegalese dall’interno. Solo villaggi della savana. Nel cortile, per metà in ombra, vi erano tre donne, due anziane e una giovane, sedute a gambe incrociate su di una stuoia, intente ad aprire arachidi, e un’altra che stava uscendo da una stanza. “Eh, toubab!”. Erano informate del mio arrivo: non sembravano così curiose di sapere chi fossi, cosa volessi, chi cercassi.
Certo erano stupite che fossi veramente là.
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