La scorsa settimana è stato reso noto un dato storico: per la prima volta la maggioranza delle donne americane, il 51% nel 2005, vive senza marito. Tale cifra, che comprende nubili, divorziate, vedove e conviventi, sarebbe in costante crescita, secondo un trend che l’attuale presidente Bush giudica segno di decadenza, ma che tutte le donne intervistate dal New York Times – il quotidiano che per primo ha pubblicato i dati del censimento relativo al 2005 – ritengono estremamente positivo, affermando che la vita al di fuori del matrimonio può essere ricca e appagante.
E in Italia? Secondo il rapporto Eures del novembre 2006, i matrimoni sono diminuiti del 30% dal 1975 al 2005, mentre separazioni e divorzi hanno conosciuto un vero boom: rispettivamente +59% e +66% negli ultimi dieci anni. Nel 2004 separazioni e divorzi sono stati più di 128.000, pari a 352 sentenze al giorno: l’equivalente di un addio legale ogni quattro minuti.
Ancora qualche particolare: il picco delle separazioni si situa tra il terzo e il quinto anno di matrimonio; tra le motivazioni spicca l’insofferenza reciproca; la decisione è consensuale nel 78,2% dei casi (dati del 2005).
Tutti questi dati ci portano ad una riflessione sul significato che può avere oggi l’istituzione del matrimonio. Quanti sono, tra coloro che scelgono l’abito bianco, l’altare e le fedi benedette dal sacerdote, i veri cattolici che vivono l’unione degli sposi come un sacramento divino, affrontando di conseguenza qualunque contrasto e difficoltà alla luce di uno spirito di sacrificio e di dedizione ispirato dall’alto? Sicuramente una minoranza. Tutti gli altri si sono fatti guidare dalla consuetudine, dal voler essere “come gli altri”, dal desiderio di una bella festa.
La verità è che nell’ultimo secolo l’istituzione del matrimonio in Occidente ha subito più trasformazioni che nei precedenti due millenni di storia cristiana: fino ai recentissimi anni dell’emancipazione femminile, dell’accesso alle professioni, del riconoscimento di un’adeguata retribuzione, il matrimonio era un passo necessario per la donna, che trovava nel marito non solo la fonte del sostentamento – in realtà solo le donne borghesi erano mantenute dal marito, tutte le altre lavoravano in fabbrica e nei campi, percependo però un salario da fame, pari a meno della metà di quello maschile, a parità o anche a fronte di maggior carico di lavoro -, ma soprattutto la garanzia della propria rispettabilità e il riconoscimento sociale.
Fino ad oltre la metà del ‘900 la maggior parte delle donne, serve in casa e sul lavoro, fattrici instancabili di bambini – il parto era la prima causa della mortalità femminile -, viveva rassegnata la propria condizione di sudditanza e di rinuncia, mentre i mariti, capifamiglia e dominatori indiscussi, erano liberi di trovare divertimento nelle case di piacere e di non alzare un dito all’interno delle mura domestiche e nella cura dei figli.
Altrettanto triste era la sorte delle zitelle, considerate esseri inutili, peso da mantenere per i parenti che erano costretti ad ospitarle e dei quali erano di fatto, anche loro, serve.
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