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PIERGIORGIO WELBY: ULTIMO ATTO
Marco Pannella annuncia che l’attesa è finita. E il suo amico è di nuovo libero.

Daniela Mazzoli

Questo periodo dell’anno liturgico la Chiesa lo chiama Avvento: consiste formalmente in quattro settimane, quattro domeniche –come spiega il celebrante durante l’omelia- in cui l’unica cosa che conti davvero è starsene ad aspettare, mettersi in uno stato di attesa, assumere la posizione interiore di chi sa che avverrà qualcosa.

Quella cosa, anzi, che precisamente lo salverà, quella persona che lo restituirà alla Vita, liberandolo dall’incubo di una morte eterna, sollevandolo dal peso del proprio essere mortale e vittima di molte debolezze. Diceva dall’altare che questo periodo si conclude appunto nella notte in cui nasce Gesù.

Allora ho capito che Piergiorgio Welby se ne sarebbe andato a Natale, che il suo periodo di attesa sarebbe finito in questi giorni, perché anche lui come chiunque aspetti qualcuno che possa restituirlo a una condizione degna si trovava, non solo fisicamente, in una posizione di attesa. Ed era, tra l’altro, una posizione straordinariamente scomoda.

Non poteva preparare né alberi né presepi, non poteva scendere in strada a fare regali, non poteva nemmeno dare una mano ad apparecchiare la tavola, o a prendere le posate in cucina. Non poteva sentirsi imbranato con la carta dei pacchi ancora da fare, non poteva inserire la spina per accendere le decorazioni luminose.

Lui aspettava che qualcuno staccasse la sua, di spina, per potersene tornare libero, per sentirsi di nuovo leggero, per alzarsi finalmente da quel letto che lo teneva ostaggio. La malattia tutti la conosciamo: distrofia muscolare amiotrofica. Degenerativa, incurabile. Appena sostenibile per i primi anni, quando ancora alcune funzioni restano attive, poi man mano insopportabile. Welby era del tutto immobile, la sua dipendenza dai propri cari, dai medici, da chi lo assisteva era totale.

Sarebbe bello che chi discute da settimane della scomoda questione pensasse a questo piccolo dettaglio, apparentemente marginale. Ma siccome a pensarci sono stati appunto uomini di potere, che possono cioè quel che vogliono, non sono riusciti a capirlo cosa significa non muoversi mai più. E’ una condizione assoluta, irreversibile.

Non ci si alza, non si muove neanche una gamba nel letto, non si può cambiare il lato su cui si dorme, il fianco che ci sostiene. Sembrava che la questione fosse puramente legislativa. Tutti saranno oggi molto addolorati e colpiti da questa morte, quasi tutti ne saranno generosamente lieti, pensando appunto al bene del malato e alle sue inumane sofferenze. Ma la verità è anche che nessuno ha voluto assumere la non facile responsabilità di alleviare un uomo dal proprio dolore.

Certe volte penso che persino verso gli animali siamo più pietosi, ai cavalli azzoppati si tira un colpo di fucile per farli smettere di soffrire. Non è mica più semplice sparare che staccare una spina o fare un’iniezione. Eppure si trova il coraggio, perché quel che conta è che nessuno debba stare tanto male, specialmente se a quel male non c’è rimedio. Noi, che anche come uomini siamo bestiali, ci rimbalziamo per giorni e giorni una palla infuocata, per non dover decidere chi sarà colpevole, alla fine, dell’omicidio. E perché, ovviamente, ogni azione non finisce ma prosegue, apre la via ad altre azioni, costituisce un precedente, mette nero su bianco una volta per sempre.

Ecco, di questo hanno avuto paura gli uomini del potere -anche spirituale- di compiere un gesto reale di amore, di impugnare l’arma della compassione. Così preoccupati di mantenersi integerrimi, di non macchiarsi di qualche colpa, di non cadere per il prossimo: proprio come i farisei di cui parlava il predicatore. Ligi alle regole, duri di cuore, perfetti ma inutili per il Paradiso.


(21/12/2006) - SCRIVI ALL'AUTORE


Dall'unione dell'anima e del corpo nasce il benessere

  
  
 
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