Ecco che l’intervento del museologo si fa urgente. Il museologo è una figura che conosce la storia dei musei, che ha studiato le teorie della comunicazione e la semiotica (sa di avere a che fare con le valenze simboliche degli oggetti da mostrare), che ha nozioni di psicologia (ha approfondito i processi conoscitivi: percezione, memoria, apprendimento), che è consapevole della ricaduta sociale che un museo può avere, che è stato attento a studiare i comportamenti del pubblico che frequenta quel tale museo, e che ha indagato pure le ragioni di chi al museo non intende andarci, che sa come coinvolgere, emozionare, offrire una gradevole acquisizione delle conoscenze ai visitatori.
Il museologo dovrebbe essere, naturalmente, affiancato dagli esperti del settore (l’archeologo per i musei archeologici, l’ingegnere per i musei della tecnica, etc.), così come un allestimento dovrebbe essere sviluppato in organico con il museografo, che invece si occupa della struttura architettonica, delle soluzioni espositive e tecniche, degli spazi.
Nella maggior parte dei casi italiani, gli allestimenti vengono affidati agli architetti che, non avendo nessuna nozione di museografia, privilegiano “la bella esposizione”, elegante e suggestiva, ma che non perseguono il fine comunicativo.
Fin qui abbiamo delineato alcune delle caratteristiche del “museologo ideale” che, ahinoi!, si avvicina moltissimo alle figure che lavorano nei musei all'Estero (non in Italia) dove, peraltro, nel rispetto della natura interdisciplinare del museo, si assiste alla partecipazione sinergica di varie professionalità (educatore museale, grafico museale, addetto alle pubbliche relazioni in museo, etc.) che vanno acquistando sempre più specificità e rilievo.
In Italia, purtroppo, il museo rimane una struttura gestita da esperti e indirizzata ad esperti, i quali hanno tradizionalmente l’autorità professionale e difficilmente si aprono a un dialogo con una comunità altra. Né sono disposti a trovare soluzioni diverse di comunicazione al pubblico, pensando che un linguaggio diverso da quello “elevato” a cui sono abituati produrrebbe na “semplificazione” che sminuirebbe il museo stesso.
Il personale dei musei, peraltro, continua a mostrare una imperitura resistenza a condividere le decisioni con individui o gruppi che sono al di fuori dell’istituzione: l’attenzione per il pubblico, soprattutto quello potenziale, è pressoché assente.
Mentre nel resto d’Europa, i registri per i commenti al termine della visita rimangono sempre a disposizione dei visitatori, e le loro opinioni (raccolte anche attraverso interviste e questionari) vengono considerate preziose per il miglioramento della struttura, in Italia si nicchia su ogni eventuale critica negativa e le pratiche quotidiane dei nostri musei rimangono elitarie, poco democratiche ed esclusiviste.
Gli attuali dirigenti dei musei italiani potrebbero replicare che le cose attualmente vanno benissimo, dal momento che mostre e musei sono frequentatissimi come mai lo sono stati in passato. Ma bisogna saper distinguere il successo artificioso e spesso immeritato di tantissime mostre che offrono sì ampia risonanza e visibilità, e che attraggono in un breve periodo interessi economici, politici e solo marginalmente culturali.
I musei possono ispirare, educare, informare, raccontare storie; possono stimolare la creatività, allargare gli orizzonti, aprire le persone a nuovi modi di guardare il mondo, combattere gli stereotipi, generare emozioni, progetti, ricordi.
Finché la figura del museologo non entrerà a far parte a pieno titolo dei musei italiani, questi ultimi non si apriranno mai ai dibattiti internazionali di museologia che proseguono con ritmo incalzante da svariati decenni.
E i musei italiani rimarranno “mausolei”, santuari per iniziati, anziché luoghi del sapere, attivi e frequentati, rivolti a individui di ogni classe sociale, di ogni fascia di età e di ogni livello culturale.
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