A conflitto ultimato, le romane invocarono ripetutamente e violentemente l’abolizione della legge come scrive sempre Livio: «Le donne non potevano essere trattenute nelle case da nessuna autorità, non dal pudore, non dagli ordini dei loro mariti; assediavano tutte le strade della città, tutti gli accessi al foro (...). Tale affluenza femminile aumentava ogni giorno di più. Giungono infatti dalle piazze e dalle città vicine. Già osano abbordare e sollecitare i consoli, i pretori e gli altri magistrati».
Le donne, dunque, esercitarono una vera e propria pressione politica, ma senza alcun risultato ed anzi duramente redarguite da Catone che non perse l’occasione di arringare i suoi concittadini: «Se ciascuno di noi, Quiriti, avesse solo saputo conservare in casa sua i diritti e il prestigio propri di un marito sulla madre di famiglia, avremmo meno difficoltà con tutte le donne. (...) Non c’è essere da cui possano derivare pericoli peggiori se solo lasciamo che (le donne) si riuniscano, che decidano, che tengano segreti conciliaboli. (...) Immaginatevi cosa succederà d’ora in poi se queste leggi saranno revocate e le donne saranno poste, anche legalmente, su un piano di parità con noi.
Voi le conoscete le donne: fatele vostre uguali e immediatamente ve le ritroverete sul gobbo come padrone»...
Le signore neanche gli risposero: tornarono a casa, si rifiutarono ai mariti e quelle incinte si procurarono aborti... Abolita la legge Oppia, Livio scrive che «reso alle donne l’uso del cocchio, ricominciarono a nascer figlioli, felicemente e numerosamente partorendo»!
Lasciatosi alle spalle l’epoca storico-leggendaria della prima repubblica, le donne romane abbandonarono gli esemplari modelli rappresentati da una Lucrezia che non aveva esitato a squarciarsi il petto davanti agli impassibili ed orgogliosi maschi della famiglia perché violentata da Sesto, figlio del settimo Re di Roma Tarquinio il Superbo, o quelli impersonati da una Cornelia che si vantava di possedere solo due gioielli: i suoi figli.
Ormai alla soglia dell’Impero, una romana, Ortensia, ebbe addirittura l’ardire di salire sulla pubblica tribuna dei Rostri per protestare contro un editto che imponeva alle 1400 donne più ricche di Roma di far stimare i loro beni e di darne una parte allo Stato quale contributo nella guerra contro gli assassini di Cesare.
«Se noi donne non abbiamo dichiarato nessuno di voi nemico pubblico, non abbiamo raso al suolo nessuna delle vostre case, non abbiamo distrutto nessuno dei vostri eserciti, nulla abbiamo fatto contro di voi né vi abbiamo impedito di ottenere potere e onori, perché mai dovremmo condividere i castighi non avendo preso parte alle ingiustizie?
Perché mai dovremmo pagare se non partecipiamo né al potere né agli onori, né alla conduzione della guerra né alla gestione della politica mentre voi su questo siete già in lotta l’uno contro l’altro con risultati così penosi?», tuonò Ortensia dall’alto dei Rostri. I Romani non seppero cosa rispondere e dimezzarono il tributo.
|
|