Nel narrare la vita di Numa Pompilio, il leggendario secondo Re di Roma che in base alla cronologia tradizionale regnò dal 715 al 673 a.C., Plutarco scrive che Numa «impose a queste (le donne) un grande riserbo, tolse loro ogni ingerenza negli affari pubblici, le ammonì a esser sobrie abituandole a tacere».
Passano i secoli e nel I d.C. lo scrittore latino Lucio Giunio Moderato Columella (De Agricoltura, Libro XII) ribadisce che «i lavori della casa sono riservati alla donna mentre quelli all’esterno sono di esclusiva pertinenza dell’uomo. È così che la divinità (...) ha affidato alla donna la cura degli affari domestici rendendola inadatta ad altri compiti».
Nel leggere questi passi affiora inevitabilmente alla mente – come da consolidati luoghi comuni – l’immagine di una donna romana relegata in casa a condurre una vita all’ombra di un padre, di un marito o addirittura di un fratellino se questi era l’unico “uomo di casa”...
Ufficialmente escluse dalla vita politica e lavorativa, le donne hanno tuttavia svolto un ruolo significativo nella storia di Roma e, ben lungi dall’essere quelle pallide figure stereotipate tramandateci da molti autorevoli scrittori classici, svelano invece una loro personalità ben determinata e determinante nell’ambito dell’antica società romana.
Il primo a dover fare i conti con uno stuolo di donne, tutt’altro che miti e sottomesse, fu il celebre Catone il Censore che già nel III secolo a.C. si trovò ad affrontare un vero e proprio movimento femminista di protesta.
Dopo la conquista dell’etrusca Vejo da parte dei Romani (396 a.C.), le donne avevano acquisito il diritto di usare il cocchio in segno di gratitudine perché durante la guerra contro questa città avevano offerto i loro gioielli al tempio di Apollo per rimpinguare le impoverite casse dello Stato.
Il diritto fu revocato nel 215 a.C. con la legge Oppia in occasione del regime di austerità imposto nel corso della seconda guerra punica. Questa legge vietava che una donna «possedesse più di una mezza oncia d’oro, che indossasse un vestito multicolore o andasse in carrozza, a Roma o in un’altra città, o a meno di un miglio dall’Urbe, se non per la celebrazione di cerimonie religiose» (Tito Livio, Storie, XIV).
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