Camicia bianca, foga latina, il giovane insiste su concetti che suonerebbero poco familiari anche ai Cossutta di casa nostra. Rilancia l’urgenza del socialismo reale, passa alcuni minuti citando vari libri di suoi colleghi, poi si accascia sullo schienale. E’ il turno quindi di una donna kenyota, labbra sporgenti e naso largo e schiacciato, sguardo solido, che contrasta e insieme si sposa con il suo vestito colorato. Nel giro di venti secondi liquida la discussione su socialismo e capitalismo, che andava avanti da un’ora filata.
“Non mi sembrano concetti utili, importanti per una certa umanità”. Comincia a parlare di sete, di uomini e donne che non mangiano per giorni, di persone cui è negata ogni altra vita perché spendono ore nelle loro giornate alla ricerca di cibo e acqua che magari nemmeno trovano. Parla, di patate, fogne, aids. Il volto si tende, gli occhi si assottigliano, il volume del suo inglese è quello a cui vorrebbero parlare, se fossero qui, gli uomini e le donne che lei ha incontrato per anni nelle città e nei villaggi kenyoti. Finisce e si risiede, quasi arrabbiata; scatta un applauso da parte dei suoi colleghi. Poi torna il silenzio e prende parola un sudamericano barbuto: “cari amici, il socialismo…”.
Usciamo dalla Fao per un attimo. Il giorno successivo alla conclusione del vertice i giornali rilanciano la notizia dell’ultimo premio Nobel, assegnato a Mohammed Yunus, inventore del microcredito. Yunus è un economista, che ha escogitato un sistema semplicissimo e geniale che sta migliorando le condizioni di vita di milioni di persone. I poveri del mondo non possono chiedere prestiti alle banche, che chiedono garanzie insostenibili per chi vive in quelle condizioni; l’alternativa erano gli usurai, finché non è arrivata la Banca Etica di Yunus. L’idea è semplice: dare fiducia ai poveri, concedendo prestiti limitati, fino a cento dollari nei paesi più disagiati, in modo che questi possano dare inizio a una piccola attività. Nessun prestito ulteriore viene concesso fino alla completa restituzione del primo. Ma il 98% dei beneficiati, soprattutto donne, restituisce il dovuto. E può accedere a un nuovo prestito per ampliare ulteriormente la sua attività.
Si parla di tappeti, fiori, galline. Per commerciare questi prodotti, ed emanciparsi dalla miseria, occorre un minimo capitale iniziale. Con cento dollari ottenuti grazie al microcredito Turpekai, una donna afghana, ha comprato il materiale indispensabile a realizzare un tappeto. Lo ha rivenduto a duecento dollari: con il guadagno ha potuto far studiare i figli. E ora lavora in proprio. Yunus ha semplicemente dato un’occasione concreta ai poveri del mondo: gli ha permesso di comprare due galline, qualche seme, o un po’ di tela. E ha sfruttato alcuni fra i più semplici principi del capitalismo (!) per dare la possibilità ai diseredati di emanciparsi.
Ma non importa qui che si tratti di capitalismo o socialismo, non è la sede per parlare dei guasti o dei meriti di uno o dell’altro. Importano le patate e le galline. Importa la semplicità dei discorsi che riescono a smuovere realtà che appaiono immodificabili. Bisogna ricordarsi e dire prima di tutto che se si è mangiato e bevuto, si hanno le forze e il tempo per occuparsi di altro. E che senza non si vive. Di capitalismo e globalizzazione si parlerà, perché la sazietà e il benessere si raggiungono anche per via dei (massimi) sistemi, ma sarà meglio farlo più tardi.
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