Il palazzo della Fao, a Roma, è un luogo imponente. Sette o otto edifici uniti fra loro, alcuni di otto piani. Scaloni ampi, tappeti eleganti, vetrate e piante. Le sale di lavoro, ciascuna dedicata a una nazione, sono arredate con cura, a volte con gusto esotico. Sul tetto si pranza all’aperto, in una serena confusione di lingue, volti e abiti che provengono da quasi tutto il mondo. Qui si spalanca la visuale verde e millenaria che offre Roma, sotto il sole caldo di metà ottobre, quasi uno sberleffo all’autunno iniziato da un pezzo.
Qui, fra l’11 e il 13 ottobre 2006, si è svolto il “IV Encuentro Mundial de intelectuales y artistas en defensa de la humanidad”. Il prodigo organizzatore è stata l’ambasciata del Venezuela di Hugo Chavez. E sono soprattutto sudamericani e centroamericani gli intellettuali giunti qui, insieme a un po’ di europei (con una timida presenza italiana) e africani, pochi anglosassoni e pochi asiatici. I pervenuti coprono un raggio che va dalla sinistra all’estrema sinistra, anche se spuntano qua e là figure come quella di James Baker, ex segretario di stato americano durante l’amministrazione di Bush padre - non proprio un guerrigliero zapatista - e ora oppositore di Bush figlio. Una brigata eterogenea ma concorde, che si ritrova per tre giorni di pensieri e, si spera, iniziative sulle sorti del mondo. Inquieta però l’astrattezza del tema: “la difesa dell’umanità”. Da chi? Da cosa? Riguardo a cosa?
Dopo una presentazione generale dell’evento si riuniscono i singoli gruppi di lavoro, circa una decina, composti da dieci – venti intellettuali ciascuno. Tra i macrotemi su cui si dibatte: la libertà d’informazione, la partecipazione popolare, la sovranità e la legalità internazionali, la solidarietà e l’integrazione dei popoli. Il tempo è poco, gli intellettuali si accomodano nelle loro sale, ciascuno coi suoi appunti e le sue idee. Si parla soprattutto spagnolo, ma anche inglese, francese e italiano; chi vuole ha a disposizione la traduzione simultanea. L’obiettivo è che ogni gruppo giunga alla mattina dell’ultimo giorno con un documento che sintetizzi le proposte emerse: tutto finirà per confluire in un documento ufficiale unico che sarà presentato alla stampa nel pomeriggio conclusivo.
Parole, parole che si susseguono a fiumi, in un’atmosfera serena, o caotica, o tesa. Dipende dai gruppi, dalle varie fasi in cui si trovano i dibattiti. A volte ci sono problemi di traduzione, a volte di metodo, raramente ci si accende sul merito. Le visioni politiche sono troppo omogenee per produrre un vero dibattito. Ci si attendono però proposte di iniziative concrete.
Ma girando fra le sale si ha l’impressione di una certa sterilità dei lavori: monologhi più che dibattiti, difficoltà con le lingue o con l’organizzazione pratica dei lavori, pause infinite in cui gli intellettuali emigrano in massa e vanno a svernare davanti ai buffet. La velocità con cui alcuni pucciano la brioche nel caffè non sembra memore dei tempi ristretti dell’assemblea, né della fame nel Congo. Ma tant’è. Alla ripresa dei lavori c’è chi si scalda e c’è chi, letteralmente, dorme, magari nelle retrovie della sala, magari appesantito dall’età o dalla brioche.
Anche sui contenuti non promette troppo bene. In tutti i dibattiti i concetti cardine, nemmeno fossero state le parole d’ordine per accedere alle sale, sono capitalismo e socialismo. Naturalmente nel senso che il primo ha fallito, e il secondo è la via d’uscita. “No hay tercera via!”, non esiste una terza via, come urla un giovane intellettuale messicano, dando inizio a una delle scene più significative di questi giorni di dibattito.
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