Fino a qualche anno fa si sarebbe parlato di esaurimento nervoso, oggi preferiamo dire depressione. Fatto sta che ancora non ci siamo resi perfettamente conto di dove comincia e dove finisce il circolo di questa malattia contemporanea, psicologica ma soprattutto sociale. Probabilmente non ha una fine precisa e individuare dove comincia sarebbe altrettanto difficile. Sono pensieri, questi, che ci attraversano solo nel momento in cui i media cominciano a dare effettivamente peso ad uno degli aspetti più inquietanti di tutta la questione: i nostri bambini sono depressi.
In uno degli ultimi rapporti pubblicati dalla Comunità Europea e dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) dopo una conferenza tenutasi a Lussemburgo sulla salute mentale dei bambini e degli adolescenti, si legge che soffrirebbe di depressione il 4% dei ragazzi tra i 12 ed i 17 anni. Inoltre, il XXII Congresso Nazionale della Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza ha messo in evidenza come in Italia la somministrazione di antidepressivi sotto i 18 anni sia aumentata di quasi sei volte tra il 2000 e il 2002.
Complessivamente circa l’8% della popolazione italiana di età inferiore ai 19 anni soffrirebbe di un disagio psichico di tipo depressivo, mentre il 15% degli adolescenti e l’1-3% dei bambini avrebbe problemi psicologici, dalla depressione al disturbo ossessivo-compulsivo*. Ma non è finita qui, è di poche settimane fa un articoletto intitolato “Il suicidio: prima causa di morte tra i giovani dai 15 ai 25 anni” che sul Corriere della Sera snocciolava recenti dati dell’OMS, su come il suicidio giovanile non sia una problematica esclusiva dei Paesi del Nord Europa ma anche del nostro Paese, dove l'8% dei decessi nella fascia di età tra i 10 e i 24 anni, è determinato dalla scelta consapevole di togliersi la vita.
Ma cosa vuol dire? La depressione è un male degli adulti, come fa un bambino a provare certe frustrazioni, a sentirsi inutile? I bambini non hanno niente da fare, niente a cui pensare, devono solo giocare, ridere, sognare. È vero. Eppure ci sta sfuggendo qualcosa di molto importante. Oltre gli allarmismi, oltre il potere dei numeri, dovremmo riconoscere ciò che c’è di marcio nel nostro stile di vita.
L’uomo non è stato progettato per viaggiare quotidianamente a 100 km orari, per impiegare il suo tempo ad inseguire logiche carrieristiche di cui sentirsi vittima, per guadagnare soldi, per dimostrare agli altri che non è impotente. Alla lunga questo stanca, snatura la nostra essenza, distorce le relazioni, la visione della realtà, gli istinti primordiali che ci appartengono.
Su quali basi crescono allora i nostri bambini? Perché bambini non si è di fatto, bisogna avere la libertà di esserlo, e spesso, oggi, i bambini non ne sono più liberi e si ritrovano ad essere solo piccoli uomini tristi con un fardello enorme sulle spalle che nessuno, oltre a loro, è in grado di vedere. La scuola, allora, potrebbe essere un punto d’osservazione valido da cui partire, un luogo esterno alle logiche familiari da cui iniziare ad accorgersi di questo disagio.
Ce ne parla Silvana, professoressa di matematica e scienze nelle scuole medie della provincia romana da più di vent’anni, alla quale abbiamo cortesemente chiesto di concederci una chiacchierata a proposito della sua particolare esperienza professionale a contatto con bambini tra i 10 e i 13 anni.
* Dati tratti dall’articolo “Notazioni su un male sociale: la depressione. Dal ‘libro verde’ dell’Unione Europea alla Situazione Italiana” del dottor Paolo Roberti, presente nell’archivio del sito www.giulemanidaibambini.org
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