Qual è allora il senso del Tempo nella fotografia? Forse nessuno. Forse quella frazione di secondo che basta al fotografo per uccidere un attimo, una persona, un paesaggio, sorpresi, catturati nella loro spontaneità, privi di posa, nel loro essere vivi, nel loro essere morti, per sempre. Forse il rumore dello scatto cadenzato, dell’otturatore che si apre/si chiude meccanico, come un orologio, fa passare la luce, fa restare un pezzo di esistenza su un tratto di pellicola trasparente. Chissà, magari il tempo di una fotografia è semplicemente quello che la penetrerà a tal punto da logorare persino il piccolo rettangolo di carta, ingiallendolo prima, consumandolo ai bordi poi, distruggendolo infine.
Tempo come confine condiviso tra il fronte e il retro dell’obiettivo, tra l’operatore e la preda, tra la foto e l’osservatore. Tempo come ombre curiose, interpretate in una gelida giornata di sole, di un albero spogliato di colori dalla stagione e dal bianco e nero. Figure strambe che mai torneranno per lasciarsi prendere. Tempo come fotografare la scia: immobilità del movimento! Rughe, comparse all’improvviso su un ritratto di mezza età. Campi, ingialliti da agosto. Case, ora rase al suolo. Strade, vestite di stoffe diverse. Occhi, che chiedono di esistere ancora.
Tempo come nostalgia di non trovarsi ancora lì, malinconia per non esserci mai stati.
Insomma, cosa sia il Tempo per la fotografia è difficile da stabilire, paradosso simile alla pretesa di scorgere i limiti di un fenomeno inafferrabile dalla razionalità. Forse la fotografia è il Tempo, e la sua capacità di catturarne e mostrarne la violenza non fa altro che identificarla con esso. Meglio ancora sarebbe far posare il pensiero sulla consapevolezza che ancora oggi la fotografia sembra essere l’unico strumento per misurarlo, il Tempo, l’unico in grado di coglierlo, fermandolo in una stasi perfetta, sfuggente a qualsiasi scorrimento. Per questo, lei, arriva pesante, come un incidente, come il dolore che inibisce il pianto, come un pugno allo stomaco.
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