Quando si pronuncia la parola “documentario” è facile che lo spettatore italiano pensi subito alla faccia paciosa di Piero Angela che introduce un filmato sulla vita degli animali della savana…
In realtà questo tipo di cinema (perché è importante sottolineare che di cinema a tutti gli effetti si tratta) nasconde molto di più, e il grande pubblico forse comincia ad accorgersene: i documentari di Micheal Moore che incassano molto e molto fanno parlare di sé sono il sintomo di un interesse generale che si sta risvegliando.
È importante considerare che la separazione fra documentario e fiction è così netta soltanto nel nostro Paese; e che la storia del documentario non si è sviluppata parallelamente al resto della storia del cinema, ma in stretta interdipendenza. Il cinema dei Fratelli Lumière nasce come registrazione della realtà quotidiana, che aveva una forza tale da stupire e incantare i primi spettatori – o da farli scappare a gambe levate alla visione dell’arrivo di un treno in stazione… Da allora il documentario ha attirato sia grandi registi che ad esso hanno dedicato tutta la loro opera – Vertov con il suo cineocchio, Flaherty, Ivens, Rouch con il suo cinéma-vérité – sia registi che proprio con il documentario avrebbero iniziato una lunga carriera.
Moltissimi autori che avrebbero fatto grande il neorealismo in Italia e la Nouvelle Vague in Francia hanno cominciato la pratica cinematografica proprio a partire da riflessioni su questo “cinema della realtà”.
E proprio riflettendo sul documentario sono nate alcune delle teorie del cinema più dirompenti. Per Siegfried Kracauer il cinema era lo strumento ideale per registrare la realtà fisica, e metteva in primo piano la valenza didattica del mezzo cinematografico.
André Bazin era convinto della vocazione ontologica del cinema al realismo che, con il perfezionamento dei mezzi tecnici, avrebbe portato a una piena coincidenza cinema-vita. Per Bazin il cinema è il mezzo che fa emergere la verità intima del reale. I film portati a esempio da Bazin per illustrare le sue teorie erano sia film di finzione sia, spesso, documentari: a testimoniare come la “divisione di campo” non abbia tutta quell’importanza che noi le attribuiamo.
La cosa fondamentale è che da queste riflessioni nasce anche un’estetica del realismo che privilegia scelte che investono pienamente anche il campo del cinema di finzione: audio in presa diretta, pianosequenza, profondità di campo.
Mezzi che oltre a mettere a nudo il reale erano anche il risultato di una precisa presa di posizione autoriale, di uno sguardo in fin dei conti non neutrale, che mirava a mostrare la verità. Anzi una verità, quella decisa dal regista.
Già nel 1946 Bazin però aveva intuito che l’evoluzione del cinema e dei media avrebbe cambiato le carte in tavola: dopo la guerra “documentario” sarebbe diventato sempre di più sinonimo di “reportage d’attualità”, con un guadagno nell’immediatezza e nel senso di realtà proveniente dalle immagini, ma con una perdita di autorialità e di ricerca. E anche con una perdita di capacità di lavorare sull’ipotesi del lungometraggio, per privilegiare lunghezze più “televisive”.
E oggi? Ci sono sempre più segnali che non è irrealistica l’idea di andare al cinema per vedere un documentario: oltre che per il già citato Micheal Moore, il pubblico ha affollato recentemente le sale, tanto per citare alcuni titoli, per Super Size Me di Morgan Spurlock, per Il grande silenzio di Philip Groning, per The Corporation di Jennifer Abbot e Mark Achbar.
Ma qualcosa si muove anche sul fronte dei titoli italiani: in molti si sono emozionati, nelle ultimissime stagioni, vedendo La storia del cammello che piange di Luigi Falorni, o Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi; la Fandango si dedica con convinzione al documentario creando la FandangoDoc; a Napoli nasce una nuova Scuola di Documentario diretta da Mimmo Calopresti; si moltiplicano eventi, rassegne e festival dedicati a un genere che sembra davvero destinato a crescere e rinnovarsi… perché è nato insieme al cinema e forse non morirà mai.
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