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L’abilità innata
E’ nel Rinascimento che si modificherà sostanzialmente l’accezione di Genio come entità astratta ed esterna all’uomo. Nell’Accademia platonica di Firenze, recuperando parte della tradizione platonica ed aristotelica, la malinconia diventa una divina follia nonché il segno distintivo delle personalità eccezionali: la malinconia è un dono degli dèi attraverso cui si manifesta il contatto con il divino, è l’aspirazione alla trascendenza attraverso l’arte; questa concezione si riscontrerà da Michelangelo a Durer fino a tutto il Barocco.

E’ attraverso la riabilitazione del termine malinconia da parte dei neoplatonici che si giungerà alla terza definizione di genio come potere creativo, dove l’etimologia del termine risale a ingenium, appunto abilità innata; in questo senso, il genio non si può in alcun modo apprendere e come scrisse il poeta Sidney in Defense of poesie: “A poet no industry can make, if his own genius be not carried unto it; and therefore is an old proverb- orator fit, poeta nascitur-” [Nessun artificio potrà creare un poeta, se a ciò non avrà provveduto il suo genio; e da questo l’antico proverbio- oratori si diventa, poeti si nasce-]. Questa accezione vuole racchiudere all’interno del termine, da un lato, il furor poeticus e, all’altro, l’ars: Emanuele Tesauro nel suo “Il cannocchiale aristotelico” definisce l’ingegno come qualcosa in grado di legare le nozioni separate e remote di oggetti appropriati. Nel Seicento, genio viene a designare la facoltà di avvicinare, attraverso il metodo dell’analogia, cose che invece sono distanti: in questo periodo l’ingegno da canone poetico diventa legge estetica; sarà, infatti, Giambattista Vico a definire la fantasia come l’occhio dell’ingegno.

Il Genio diventa una continuazione del potere della natura nell’arte: non bisogna imitare pedissequamente la natura ma, rimanendo all’interno dei suoi confini, cogliere selettivamente ciò che in essa si rivela di perfetto attraverso il gusto. Kant, nella sua “Critica del Giudizio”, definirà il genio come uno spirito che è dato all’uomo con la nascita, che lo protegge e lo dirige: il genio è talento che dà regola all’arte. Nel Romanticismo, il genio diventa colui che è in grado di recuperare, con l’immaginazione, gli entusiasmi innocenti dell’infanzia senza negare la corporeità e l’istinto. Con le dovute differenze ed i dovuti approfondimenti che si dovrebbero fare, possiamo collocare sulla stessa scia il pensiero hegeliano, per il quale il talento è la qualità innata del genio.

Sarà Kierkegaard, nella seconda metà dell’Ottocento, a rovesciare la positività del genio con una ripresa dei caratteri del demone della cristianità medievale, una figura angosciante in cui la naturalezza di cui è prigioniero il genio non è una nota di merito bensì una continuazione dell’ambiguità intrinseca alla natura stessa. Schopenauer recupererà la concezione neoplatonica dell’entusiasmo e sosterrà che il genio è l’unico in grado di sottrarsi alla volontà e cogliere le idee. Nel Novecento, infine, sarà Bergson uno degli ultimi ad affermare in modo specifico che il genio è colui che sa distaccarsi maggiormente dalla vita e la cui arte non ha altro compito se non mettere da parte le convenzioni che gli impediscono di entrare in contatto con la realtà.


Conclusione
Talvolta si crede- erroneamente- di poter fuggire e sfuggire a ciò che più ci spaventa. Si crede di preferire una vita serena che si muova sul filo sottile della normalità piuttosto che lo squilibrio di una follia artistica. Una scelta legittima, è ovvio. Ma spesso lo sforzo di essere normali ci rende folli. Se si tiene dentro l’emozione forte ed irreprensibile, se si cerca di addomesticare il gatto selvaggio, si rischia di ammalarsi. Uno sforzo esecrante nella sua impossibilità. La quadratura del cerchio.

Le epoche ed i contesti cambiano, i volti che ci circondano non sono mai gli stessi, non ci si bagna mai nello stesso fiume. Ma si riconosce a distanza lo scintillio del talento. Il tintinnio di chi cammina al di sopra di certi canoni. Di certe convenzioni. Probabilmente è vero che la genialità non si può insegnare, è vero anche che sia un’inclinazione naturale. Ma bisogna constatare che- ai giorni nostri- il genio è temuto perché le sue azioni sono imprevedibili. Quanto ci spaventa l’imprevedibilità degli altri?.

Non sapere cosa pensano le persone che abbiamo attorno fa paura. Eppure, ci lega a loro con ragnatele invisibili. Di cui neppure ci accorgiamo. Ma che, quando facciamo per andarcene, ci impediscono di allontanarci troppo. Questa è l’immensità del vuoto. Stare sulla cima di un monte e guardare sotto, sul pavimento di nuvole che sovrasta la vallata. La vertigine delle cose intense. Ma che sono anche le più vere e le uniche che vale la pena vivere. Il genio è colui che ha il coraggio di mollare la presa al momento giusto. E’ colui che ha la forza di gettarsi nelle proprie emozioni senza porsi troppe domande. Ma senza neppure porsene troppo poche. Il genio salta il fosso, quando deve. Sovrasta il nulla e basta a se stesso. Si protende verso gli altri. E li ammalia. E li spaventa. Emozioni contrastanti, dentro e fuori di lui. Non sa e non può giustificare i legami che crea attorno alla sua persona. Lui è la magia di ali cangianti. La criniera del sole in un pomeriggio di ghiaccio. L’onda di stelle e sale. L’immensità del cielo che ci sovrasta. Il mare in tempesta. Se fosse possibile, rinuncereste a tutto questo per un anonimo lago calmo?


(09/03/2006) - SCRIVI ALL'AUTORE


Dall'unione dell'anima e del corpo nasce il benessere

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