“Beati i musicisti, i cantanti o i ballerini: essi hanno il metronomo, il direttore e il coreografo! Per noi non è così, noi non abbiamo né leggi, né note, né partiture stampate, né direttore d'orchestra.”
A dirlo è Torzov, immaginario personaggio del libro di Stanislavskij Il lavoro dell’attore su sé stesso.
Noto a molti, anche solo per sentito dire, il metodo Stanislavskij, è famoso in occidente grazie ai giri assurdi di una vicenda editoriale complessa. Fu una casa editrice americana a gestire il tutto, con non poche modifiche e selezioni riguardo ai contenuti.
Il problema di Stanislavskij è privilegiare la credibilità del processo scenico, piuttosto che la leggibilità del segno; risultare credibili. In questo, il concetto di reviviscenza era stato centrale, e ancora è riportato da noi come l’unico degno di nota. Ma ci sono segreti che le edizioni originali russe custodiscono gelosamente, senza mai aver visto la luce di una traduzione ufficiale.
La musica in Stanislavskij è uno di questi.
Il contesto all’interno del quale il lavoro di Stanislavskij si inserisce è quello che la storia del teatro chiama la Grande Riforma, coincidente con la nascita della regia. Siamo nella Russia dei primi del novecento. Oltre alla rivoluzione d’ottobre, molte altre ne accadranno sotto i veli indifferenti del regime sovietico, e saranno rivoluzioni piene di fermenti artistici. Una di queste è la rivoluzione della musica, che per il sistema tracciato dal maestro in quegli anni rappresenta una vera e propria svolta concettuale. Una scoperta di rilevanza tecnica assolutamente non trascurabile per l’accesso all’arte scenica.
Reduce come attore dal fiasco dello spettacolo puskiniano Mozart e Salieri, andato in scena nel 1915, Stanislavskij capisce che quella stonatura tra sentimento rivissuto ed espressione fisica, verbale o motoria che sia, dipende da qualcosa di molto forte. È un vuoto che va colmato. E per farlo c’è bisogno di una rivoluzione strutturale più che formale, nelle sue teorie sul lavoro dell’attore su sé stesso.
Se nella fase iniziale della sua ricerca Stanislavskij pone le fondamenta del sistema evidenziando un percorso che parte dall’interno - la capacità dell’attore di rivivere gli eventi, di risultare credibile attraverso la reviviscenza - con Mozart e Salieri si rende conto che tutto questo non basta. Ci vuole qualcos’altro. Qualcosa che risolva quell’incolmabile stonatura. Qualcosa di cui l’attore non dispone in partenza. È la musica. Musica di azione e sentimento. Di parole e movimenti. L’attore deve supplire all’assenza di una musica dall’esterno, di una partitura già data che lo guidi verso la sua verità. Cosa che invece accade per cantanti, ballerini o attori d’opera.
Con la rivoluzione della musica, il primato interiore del sentimento viene ridimensionato dal concetto di tempo-ritmo giusto. È il corpo che vive, a indurre l’anima a credere. È il corpo il primo garante di logica e coerenza dell’azione. Il tempo-ritmo diventa la via diretta alla reviviscenza. Una via fisica prima ancora che interiore. Lavorando con cantanti d’opera nello Studio operistico al Bol'soj, Stanislavskij comprende appieno il significato di tempo-ritmo.
È attorno a questo concetto che ruota la rivoluzione della musica. Stanislawskij capisce che in scena tutto parte dal tempo. Fissato il tempo di un’azione, come per una battuta musicale si fissa la misura, il ritmo poi deriva da “singoli momenti di diversa lunghezza, che dividono il tempo in diverse e differenti parti”. Significa che ogni azione nella sua interezza può essere suddivisa e scomposta in piccole azioni ausiliarie, che nel loro interagire costituiscono un vero e proprio diagramma ritmico.
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