A chi non è capitato, soprattutto nel periodo infantile, di essere trasportato in un mondo fantastico, apparentemente avulso dalla realtà “ordinaria”, dove gli oggetti avevano una vita propria molto dinamica, dove gli animali si esprimevano con un linguaggio udibile all’essere umano, dove agli elementi della natura venivano attribuite azioni intenzionali (il mare che culla, il fiume che trasporta, il sole che asciuga, la luna che illumina mentre ci segue quando siamo in viaggio, e così via).
A poco a poco, però, il bambino decide di tenere solo per sè questo modo di fare esperienza perché sente l’adulto sempre più distante da questa vitalità; così finisce con il non sentirla più neanche lui, relegandola in un mondo chiamato fantastico perché “fuori dalla realtà”.
Molti, comunque, riescono a mantenere anche da adulti questo mondo interiore ricco di vita (mi riferisco a quelle persone che sono consapevoli della distinzione tra le due condizioni, realtà e fantasia, e non a quegli individui che, in modo patologico, scelgono di rifugiarsi in un mondo che li porta a perdere il contatto con la realtà), sentendo dentro quel bambino di carducciana memoria. Molti, però, rinnegano in maniera totale la parte fantastica della realtà giudicandola inadeguata, segno di immaturità, inutile, in altre parole giudicandosi, negando una parte del mondo individuale e quindi bloccando la capacità innata di esprimere la creatività che il nostro emisfero destro del cervello e pronto a produrre.
Nella Gestalt l’uso della fantasia come strumento di lavoro psicoterapeutico a volte è un buon canale per espandere la consapevolezza, per portare all’azione, per rimettere in moto un’energia che è bloccata da qualche parte nel corpo, per continuare un sogno e completare quella che tra gli “addetti ai lavori” viene chiamata gestalt che, senza addentrarmi nei particolari teorici, posso definire una “forma” in senso lato (forma di percezione, di pensiero, di azione) che tende naturalmente a completarsi.
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