La donna romana, appena sveglia, dopo sommarie abluzioni passava subito a sistemarsi i capelli che, dall’epoca di Messalina, si acconciavano in complicatissimi riccioli o in trecce sistemate in numerosi giri, alti sul capo come torri.
Per sistemare queste elaborate architetture le donne romane ricorrevano all’abilità delle ornatrices, provette pettinatrici che sottoponevano le signore a lunghe e dolorose sedute di bellezza.
Come i loro padri, mariti o fratelli, anche le romane amavano tingersi i capelli, soprattutto di biondo e per rendere chiari i loro capelli le donne dell’antica Roma erano disposte a qualsiasi sacrificio, come ricorrere ad una tintura ritenuta «insuperabile»: un intruglio a base di sanguisughe e uova di corvo lasciate a macerare in vino rosso per due mesi. La mistura veniva venduta a peso d’oro ed era considerata talmente «forte» che si consigliava, per precauzione, di «tenere la bocca piena d’olio» durante l’applicazione.
La signora che non osava rischiare un’intossicazione, stringeva i denti e affidava i suoi capelli grigi all’ornatrix che le strappava, senza pietà, i capelli bianchi, la pettinava, la depilava e, infine, la imbellettava: gesso di biacca veniva passato sulla fronte e le braccia, le labbra e gli zigomi venivano tinti di rosso con ocra o feccia di vino, le ciglia e il contorno degli occhi dipinti di nero con fuliggine o polvere di antimonio.
Anche l’uomo romano, appena alzato, si preoccupava innanzitutto del suo aspetto fisico e, dopo una fugace colazione, usciva presto da casa per precipitarsi dal tonsor, il barbiere, che esercitava il suo mestiere in una delle tante botteghe della città o per strada, all’aperto, per la clientela più povera.
La tonstrina era arredata con panche poste tutte intorno alla stanza sulle quali sedevano i clienti in attesa, mentre altri aspettavano in piedi, rimirandosi negli specchi appesi ai muri. Al centro della bottega, seduto su uno sgabello, il cliente di turno si affidava alle mani del tonsor che, assistito dai suoi aiutanti, gli tagliava barba e capelli, mentre tutt’intorno si intrecciavano pettegolezzi e maldicenze, si scambiavano notizie e, magari, si concludeva qualche “affaruccio”...
Siccome le forbici di quei tempi lasciavano alquanto a desiderare e il taglio “a scalare” non era di moda, gli elegantoni di allora si facevano arricciare i capelli, non disdegnando tinture, profumi, belletti e, perché no, qualche bel neo finto che desse un po’ di vivacità ad un volto troppo scialbo.
Stravaganze a parte, i Romani nutrivano nei riguardi della rasatura il più grande rispetto e il primo taglio della barba di un giovane era celebrato con una cerimonia religiosa, la depositio barbae.
La peluria recisa veniva conservata in un cofanetto e poi consacrata agli Dèi; la solennità era celebrata da ricchi e poveri con festeggiamenti e banchetti ai quali partecipavano parenti e amici della famiglia.
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Nessun romano - né patrizio né schiavo - si radeva da sé in quanto gli attrezzi erano fragili e difettosi, non si usavano lozioni ed il sapone ancora non esisteva. Per cui, chi voleva farsi radere aveva solo due possibilità: o una rasatura accorta ma interminabile o una rasatura veloce con il rischio di tagli e sfregi.
Il tonsor doveva, quindi, necessariamente possedere una rara abilità e gli apprendisti, prima di poter aprire una loro bottega, erano costretti ad un lungo tirocinio durante il quale potevano usare solo rasoi smussati.
Gli “incidenti” sul lavoro erano così numerosi che i giuristi dovettero stendere una precisa regolamentazione per determinare le responsabilità e le relative sanzioni di legge.
Sfregi e ferite, pertanto, erano talmente frequenti che Plinio il Vecchio ritenne opportuno consigliare ai malcapitati Romani una disgustosa ricettuola contro le emorragie provocate dai tagli delle rasature: un’applicazione di tele di ragno mescolate con olio e aceto...
I barbieri più rinomati, quindi, erano anche i più lenti... talmente lenti da meritarsi satire e versi pungenti:
«Gira svelto barbiere gira gira
Intorno alla faccia di Luperco
E mentre che le gote sbarba sbarba
A quello spunta altrove un’altra barba» (Marziale)
Chi non aveva molto tempo da perdere o sangue freddo a sufficienza ricorreva al “dropacista” che gli passava sul volto il dropax, un depilatore a base di resina e pece.
Giulio Cesare e altri uomini “veri” del suo tempo, invece, ricorrevano alle pinzette e si facevano strappare i peli uno ad uno.
Poi, l’imperatore Adriano - per impazienza o per vigliaccheria o, più semplicemente, per nascondere delle antiestetiche macchie bluastre che gli deturpavano il volto - si fece crescere una bella barba e tutti i Romani si affrettarono a seguirne l’esempio, sollevati e felici.
Un po’ meno felici furono i tonsores... ma, si sa, alla moda non si comanda...
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