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PERCHE' SI DIVENTA ANORESSICI O BULIMICI
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Si è quasi del tutto perduta la connessione diretta fra cibo e piacere di nutrirsi per soddisfare la fame. Spesso si mangia per abitudine, perché “è l’orario giusto”, per trattare affari di lavoro, perché si è davanti al televisore, per fare compagnia ad un amico…
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di Dott.ssa Maria Rosa Greco Psicologo clinico e Psicoterapeuta della Gestalt
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La cultura narcisistica dei nostri tempi limita, tra gli altri aspetti, la consapevolezza del proprio corpo perché si basa sull’enfatizzare “ciò che appare”, la forma, spesso a discapito di un’attenzione sul contenuto.
Non a caso disturbi come l’anoressia (rifiuto del cibo) e la bulimia (ingestione di grosse quantità di cibo con conseguente vomito) sono patologie molto attuali.
Dal punto di vista della “cultura della forma” il cibo è diventato il nemico primario di una lotta tra l’immagine individuale e le richieste sociali a cui rispondere per non ritrovarsi “diversi”.
Si è quasi del tutto perduta la connessione diretta fra cibo e piacere di nutrirsi per soddisfare la fame. Spesso si mangia per abitudine, perché “è l’orario giusto”, per trattare affari di lavoro, perché si è davanti al televisore, per fare compagnia ad un amico …
I bisogni della mente si sovrappongono e spesso cancellano quelli corporei che non si sa più come ascoltare. Si mangia per compensare “altro”, fino a non riuscire più a comprendere se la molla sta nel rapporto con il cibo o in quello con l’”altro”.
Da quando gli antichi Romani ricorrevano al vomito per poter ingurgitare tutte le portate dei loro banchetti, mangiare ha assunto soprattutto una valenza sociale del tutto separata dalle reali esigenze fisiologiche.
Gli altri mammiferi sanno istintivamente di cosa hanno bisogno: trovano erbe di cui nutrirsi per regolare le proprie funzioni organiche in maniera del tutto spontanea e vanno in cerca del cibo principalmente per soddisfare il bisogno della fame.
Mentre l’essere umano spesso non comprende quali possono essere i bisogni del suo corpo, al di là di quelli fisiologici. Il cibo, quindi, assume le valenze più diverse: ormai l’unica virtualmente dimenticata è la fame.
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Addentrandoci adesso specificatamente nell’ambito proprio dei disturbi alimentari voglio specificare che essi si possono inserire in diversi stili di personalità, come sintomi di “contorno”.
Se invece esprimono il centro della personalità rientrano in vere e proprie psicopatologie che richiamano un rapporto distorto e più arcaico col cibo. In questo caso esso viene percepito come invasivo a causa di un disturbo psichico- relazionale e l’organismo sente di doversi difendere rinforzando i propri confini.
Sono due, allora, le conseguenze possibili:
1. chiudersi davanti al cibo, come avviene nell’anoressia. Diventa importante, dunque, dire sempre “no, non voglio” per non cadere nella simbiosi con l’ambiente esterno e principalmente con la figura materna.
2. Dire sempre “si”, ma in modo acritico, come accade nella bulimia. Il pensiero è “devo mangiare per separarmi, do l’illusione di essere invaso mangiando, ma non mi faccio invadere veramente, infatti vomiterò subito dopo oppure sopporterò il gonfiore della mia pancia come tortura per non farmi invadere”.
Il cibo per le persone con disturbi alimentari non è mai solo nutrimento per il corpo, ma assume un significato ansiogeno che esprime una difficoltà o un disagio.
Secondo il punto di vista della psicoterapia della Gestalt, dietro i disturbi di anoressia e bulimia si cela l’ansia di assimilare dall’ambiente per paura di essere fagocitati da esso. La persona perciò ha spesso relazioni ambivalenti: se le rifiuta sorgono spesso i sensi di colpa, se le accetta si sente inghiottita, in simbiosi.
E’, così, imprigionata tra il decidere di andare verso l’autonomia oppure tornare verso la simbiosi, dipendenza. A livello propriamente corporeo questi disturbi si esprimono con la paura che l’assunzione e l’assimilazione di cibo possa essere molto nociva.
Secondo il punto di vista della psicoterapia della Gestalt la realtà si legge dalla prospettiva dell’esperienza e attraverso essa l’organismo si sperimenta nella sua globalità che include, ovviamente, anche il corpo.
Secondo Frederick Perls, uno dei massimi esponenti della psicoterapia della Gestalt, l’essere umano non ha un corpo ma è un corpo; ciò dà il senso dell’unitarietà e della globalità dell’organismo, che non si leggerebbe certo nella percezione di possedere delle parti come la psiche o il corpo, ma nella consapevolezza che il tutto si esprime interamente nelle singole parti e viceversa.
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Nella mia pratica terapeutica lavoro primariamente per permettere al cliente di completare le sue esperienze con ciò che non sa fare. Nell’ambito trattato è importante tornare ad abitare il proprio corpo senza fuggire dal mostrarlo per ciò che è, ascoltandone le sensazioni e i messaggi.
Perché ciò sia possibile l’obiettivo terapeutico fondamentale per il cliente è imparare a fidarsi dell’ambiente, differenziando metaforicamente tra cibo avvelenato e cibo che nutre; andare verso l’autonomia, dopo avere attraversato la profonda ansia legata alla paura della simbiosi e alla paura di esprimere il proprio “si” senza rischiare di essere fagocitati dall’ambiente.
In tutto questo cambiamento, ovviamente, è da considerare anche la trasformazione della relazione coi genitori che hanno un ruolo fondamentale sia nell’insorgenza che nella guarigione dei disturbi alimentari.
Spesso, nella mia esperienza terapeutica, mi è capitato di vedere cambiare le persone, il loro rapporto con il proprio corpo, con il cibo e con le figure genitoriali proprio grazie ai problemi insorti in quell’area.
L’auspicio è che la cultura narcisistica di questo nostro contesto storico e sociale funga da stimolo per risvegliare una coscienza della differenziazione in cui la consapevolezza di ognuno sia sempre più la partenza e non l’arrivo della ricerca di un equilibrio globale che include l’individuo, le relazioni e l’ambiente.
Dott.ssa Maria Rosa Greco
Psicologo clinico e psicoterapeuta della Gestalt
e-mail: greco.mariarosa@libero.it
tel. 338/7255800
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(18/10/2007)
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