La difficoltà di cogliere Londra comincia con l’impossibilità di definire cosa sia un londinese. Per strada le probabilità di sbattere contro un inglese sono circa le stesse di incocciare uno straniero di immigrazione più o meno recente. Dal colore della sua pelle, dai tratti del volto, dall’intonazione del suo “sorry” sarà sorprendentemente facile intuire la sua provenienza. Un’estetista algerina, un tassista del Bangladesh, un ristoratore greco, una studentessa argentina. Tutti “londoners”. E ciascuno, dopo un sorriso più o meno sbrigativo, sparirà di nuovo nella calca.
Si potrebbe dire che nessuno di questi sia davvero un cittadino di Londra, ma suona più vero il contrario: è incredibilmente facile sentirsi londinese, quasi bastasse volerlo. In mezzo a questo catalogo di volti, modi di vestire e atteggiamenti sono garantiti l’anonimato e la partecipazione alla città. Nella sua estensione, anche geografica, si dispiega la varietà che consente a ciascuno di esplorare o di rifugiarsi nel familiare. L’inclusione è la prima promessa mantenuta di Londra.
Per capire come questo laboratorio della convivenza abbia avuto un simile successo si può guardare alla “tube”, la storica metropolitana di Londra, mettendo insieme lo sguardo dell’ingegnere e quello dell’entomologo. Ogni giorno la stragrande maggioranza degli abitanti si serve della tube, un ramificato labirinto di cunicoli che permette di arrivare in breve in qualsiasi angolo della Central London, l’estesa porzione centrale della metropoli. Salvo guasti, l’attesa media per il treno è di un minuto.
Il sindaco Ken Livingstone, caso quasi unico di candidato indipendente che è riuscito vincere le elezioni, ottenendo anche un secondo mandato, ha messo in atto una politica dei trasporti pubblici che ha del miracoloso. Gli ingorghi non esistono, il traffico è scarso e scorrevole, l’aria respirabile, i ciclisti parecchi e rispettati. I londinesi viaggiano quasi tutti sulla tube, o sui bus, frequenti, riscaldati e disponibili ventiquattr’ore al giorno. Tassando le automobili con la “pollution charge” e potenziando realmente i mezzi pubblici, Livingstone ha creato un caso di studio per gli ingegneri del traffico e decongestionato una città che rischiava la paralisi.
Ma altrettanto miracoloso è il comportamento dei viaggiatori. Il londinese sa – lo sa in senso primordiale – che per condividere uno spazio gremito e chiuso come la metropolitana deve seguire ferree regole, in massima parte non scritte. La disciplina dei viaggiatori della tube è qualcosa che attiene al regno animale: ricorda le formiche, il loro procedere affiancate lungo linee perfette, ciascuna col proprio pezzo di cibo, l’uso delle antenne per percepire i vicini, la capacità di abitare una rete sotterranea di cunicoli e stanze. Senza pensarci, ognuno sa precisamente quale spazio deve occupare sulla scala mobile e, in caso di vagoni stipati, sa qual è il posto per il proprio gomito.
Su questo si regge la stabilità del “melting pot” londinese, sull’efficienza del sistema e sull’autodisciplina. Sono possibili altri sistemi? Sì, come si vede in altre metropoli, che però non attirano così tante persone da ogni parte del mondo. A ciascuno Londra promette un vita nuova, nutrendosi in cambio delle energie dei nuovi arrivati. Ma non sempre può mantenere la promessa, come descrive Ken Loach nel suo “In questo mondo libero”.
A Londra arrivano tre tipologie di immigrati. Ci sono quelli che giungono da paesi in grave difficoltà, o zone di guerra, dove anche mangiare è un problema. Vengono nella speranza di un riscatto qualsiasi. Poi ci sono coloro che arrivano da paesi del secondo o primo mondo, senza particolari aspirazioni di carriera, ma con l’idea generica di migliorare il loro stile di vita. Sono in cerca di emozioni e di un lavoro comune. Infine arrivano dirigenti e persone istruite, che aspirano a un salto di qualità professionale e a fare propria la vocazione internazionale della città. Alcuni iniziano come studenti, molti trovano un lavoro e alcuni si fermeranno a vivere qui.
A ciascuno di loro Londra può offrire qualcosa, ma senza garantire nulla, neppure ai livelli più alti. Negli ultimi anni l’economia inglese è in flessione, e la crisi dei mutui subprime degli ultimi mesi viene avvertita qui prima che altrove. La vita politica è in una fase di involuzione, il suo baricentro si sposta su posizioni conservatrici: un ripiegamento difensivo che interessa soprattutto i laburisti al governo. Diversi scandali hanno interessato la vita inglese negli ultimi tempi – persino l’assunzione di Fabio Capello, un tecnico straniero (!), alla guida della nazionale di calcio. Se il football è una religione, forse qui ancora più che in Italia, e i calciatori dei semidei, allora è davvero profonda la crisi di una nazionale che ha fallito contro la Croazia la qualificazione ai prossimi europei, perché i suoi milionari e viziati giocatori, quando vanno in campo con la nazionale, si comportano come bambini annoiati. E, aizzati dai tabloid, tutti per le strade si interrogano su cosa non vada. Nel calcio e non solo.
In metropolitana, schiacciati nei piccoli vagoni progettati a metà ottocento, i passeggeri fanno tutto il possibile per non relazionarsi: ascoltano l’Ipod o leggono un tabloid di quelli che gratuitamente vengono distribuiti a fiumi proprio davanti alle stazioni, come se la maschera per il viaggio venisse fornita insieme al biglietto d’ingresso. Sembra cioè che il formidabile meccanismo di convivenza che si sublima nella tube, mostri qualche crepa: non tutti sono a loro agio schiacciati gli uni contro gli altri. E si beve davvero tanto a Londra. Diversi vomitano in metropolitana o per strada e frequenti sono i cartelli con cui il comune ammonisce sui rischi della sbronza. Ma molti lo dicono senza problemi: “quali sono i tuoi hobby?, “mi piace bere”, è spesso la prima riposta, “bere e il calcio”. E dietro ci dev’essere qualcosa da dimenticare.
La disoccupazione in aumento, una strisciante tendenza alla chiusura dei ceti medi preoccupati, e, persino qui, una certa paura dello straniero, o paura per la paura, aumentata dopo gli attentati del 2005. Ancora le affissioni in metropolitana invitano i londinesi a “credere ai propri sensi”, e a segnalare alle guardie eventuali comportamenti sospetti. “7 million londoners” che tengono gli occhi aperti sono, secondo i manifesti, la migliore garanzia di sicurezza.
Per strada si muovono i senzatetto, tanti, a Piccadilly Circus come fuori dal centro. O gli uomini-cartello: individui che stanno impalati per ore al freddo, in mezzo al marciapiede, reggendo il cartello pubblicitario di qualche negozio o parrucchiere nei dintorni. Indossano una pettorina fosforescente per essere meglio visibili e perché, nella loro immobilità, la gente non gli sbatta contro.
Ma il mito di Londra apparentemente non ne risente: gli store di Oxford street sono sempre pieni e recentemente un locale ha reclamizzato il suo nuovo cocktail da 35.000 sterline, con foglie d’oro commestibile. E a sovrastare tutto i nuovi grattacieli in vetro e acciaio, che si armonizzano in modo sorprendente con le case in mattoni rossi. E’ solida la capacità di amalgamare le differenze, senza negarle.
Non poteva non avere tante facce diverse, Londra: regolata e dispersiva, efficiente e contraddittoria. Per questo è tanto legata ai suoi simboli storici, quelli che segnano il paesaggio urbano, taxi neri, autobus a due piani, le vecchie cabine telefoniche, il logo della tube. Sono i segni della continuità apparente di una città che ha un’anima cosmopolita e meticcia. Londra accoglie i nuovi arrivati, anche se nessuno di loro le è indispensabile. Offre loro – quasi sempre – una casa e il modo di spostarsi. Le serve e le piace questa vitalità straniera. Poi cominciano le storie di ciascuno.
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