Dei dodici anni più caldi nella storia della meteorologia, undici si sono concentrati fra il 1995 e il 2006. Ma di esempi con i quali suffragare la veridicità e la scientificità delle conclusioni sull’emergenza ambientale non c’è ormai più bisogno: “il momento dei dubbi è finito, ora è il momento dell’azione”. Sono le parole di Rajendra Pachauri, presidente dell’Ipcc, l’Intergovernamental Panel on Climate Change, che recentemente ha condiviso il premio Nobel per la pace con Al Gore.
Nel recente vertice Onu di Valencia, l’Ipcc ha emesso il suo quarto rapporto, siglato all’unanimità, anche dalle fronde storicamente più scettiche sui cambiamenti climatici, come gli Stati Uniti. Vi si legge: “Il surriscaldamento del clima è inequivocabile, ed è reso evidente dall'aumento della temperatura media globale dell'aria e degli oceani, dal diffuso scioglimento dei ghiacciai e della neve e dall'aumento globale del livello del mare”. E la responsabilità del surriscaldamento è da attribuirsi fra il 90 e il 95% ai gas serra.
In dicembre alla conferenza di Bali l’Onu dovrà tradurre gli appelli ormai unanimi degli scienziati in politiche concrete. Il segretario generale Ban Ki-moon ha spiegato che con una riduzione del Pil dello 0,12% si può contrastare il surriscaldamento.
E’ un appello importante. Con una riduzione molto modesta dell’aspirazione alla ricchezza, si può tutelare il nostro benessere a un livello ben più profondo. Del resto l’equazione ricchezza = benessere è già stata sconfessata in molte occasioni. Sul piano psicologico individuale si sono già spesi diversi studiosi a spiegare che oltre una certa soglia di reddito il benessere non aumenta più. Sul piano sociale esistono poi diversi movimenti, come quello per la decrescita il cui caposcuola è il filosofo Serge Latouche, che insistono per una revisione dell’immaginario che prescinda dall’ortodossia economica e dal mito della crescita a ogni costo.
Ban Ki-moon, che certo non è un integralista anti-globalizzazione, è stato quasi provocatorio nell’umiltà di questa sua dichiarazione. Specificare che ci basterà lo 0,12% di “sacrificio” del Pil, è da un lato un invito efficace a politici e top manager perché agiscano, dall’altro, restando appieno nel paradigma economicista, contribuisce a consolidare il quadro culturale prevalente, che fa del denaro il primo parametro che orienta l’attività umana.
Torniamo brevemente al rapporto degli scienziati dell’Ipcc. Il documento spiega che gli scenari possibili per la Terra dopo il 2020 sono difficili da prevedere. Ne hanno simulati diversi: il peggiore, quello in cui l’umanità non prendesse provvedimenti, si conclude con la sesta estinzione di massa nella storia del nostro pianeta. A fronte di un aumento della temperatura di circa sei gradi a fine secolo, più o meno sette specie su dieci scomparirebbero.
Si intuisce come anche gli scenari intermedi non siano troppo allegri. E non si capisce quale ossequio ancora si debba al primato dell’economia, che nell’ultimo secolo, indisturbata, ci ha portati dove siamo oggi, non solo in ottica ambientale.
Con la riduzione globale del Pil dello 0,12% si potrà contenere il surriscaldamento entro un aumento di altri due gradi. Una reazione forse anche troppo tiepida. E non si sa se rallegrarsi per le buone notizie – basta poco a scongiurare le peggiori catastrofi –, o dispiacersi per l’esitazione che i più alti e responsabili organismi internazionali ancora mettono nel contrastare l’ortodossia economicista. Nei secoli passati quando un paradigma scientifico o culturale non rispondeva più, lo si cambiava, pur con tutti i traumi del caso. Oggi il tempo a disposizione è, in senso storico, davvero poco, e i problemi sul piatto, inediti.
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