Nejet, professore di filologia tedesca all’Università di Brema, parte per la Turchia con lo scopo di pagare gli studi a Ayten, la figlia della prostituta Yanet che suo padre ha appena ucciso dopo aver preso in casa come compagna. Nello stesso tempo Ayten, che fa parte della resistenza politica turca, fugge ad Amburgo in cerca di sua madre, Yanet. Qui conosce Lotte, studentessa di cui s’innamora e con cui parte per Brema dove la madre risiede. Quando Ayten viene deportata nel suo paese, Lotte vola in Turchia per tentare di liberare la sua amata.
Dopo il dirompente La sposa turca, ecco arrivare nelle sale italiane un altro lungometraggio del giovane regista turco-tedesco Fatih Akin. Ai confini del paradiso è un film molto importante perché non è solamente una conferma del talento di questo autore. Si ha la sensazione, ma questo sarà il tempo e la sua filmografia a dirlo, che l’opera di Akin possa avere un senso nella sua totalità, possa parlare da sola come sovrastruttura iperfilmica che collega ogni suo singolo lavoro. Tasselli di un intero corpus drammatico che allo stesso tempo rimangono operazioni filmiche diverse l’una dall’altra. Un percorso artistico dove le tematiche che si ripropongono e si evolvono sono mosse esclusivamente dall’irrefrenabile necessità di riflettere sui propri tormenti esistenziali. Sensazione straordinaria che si concretizza solo nei grandi autori. Ma non precorriamo i tempi.
Lo spunto narrativo è quello della realtà turca contemporanea. Un paese che si interroga sull’opportunità di entrare a far parte della comunità europea.
Una realtà che Fatih Akin conosce molto bene – lui nato in Germania, figlio di immigrati turchi- e che viene raccontata attraverso i suoi personaggi, sempre in bilico tra Istanbul e Brema. Ma addentrandoci tra le righe del tessuto narrativo si percepisce la sostanza delle tematiche di questo regista. Questa volta il racconto è diviso in tre capitoli; la coinvolgente immediatezza visiva del precedente film di Akin sembra essersi dilatata a beneficio di un ritmo più lento nella prima parte, dove vengono presentati i personaggi. In realtà la struttura del film si compirà solo dopo aver assistito alla frammentarietà convergente dei primi due capitoli, arrivando così ai confini del paradiso. Le circostanze tragiche sono la via per arrivarci.
La morte arriva improvvisa, quasi inverosimilmente, in circostanze fortuite e che risulterebbero ridicole se non avessero quegli effetti tragici. Questi imprevisti si inseriscono in un tale energico contesto vitale che stride con il senso di precarietà che il loro accadere fa incombere sulla pellicola. Ed il risultato è un pathos non comune nel cinema contemporaneo, che acquisisce una valenza catartica nella risoluzione affettiva dell’ultimo capitolo. Qui si compie la grandezza del film e l’inevitabile senso di vuoto è colmato da quel sentimento universale di necessità reciproca che lega gli esseri umani. Relazioni individuali, illimitate e molteplici, che possono legarci tutti seppur non direttamente, come un infinito domino vitale – ed ecco il senso profondo delle premesse drammaturgiche non mantenute, degli effetti collaterali che ogni ricerca da parte dei personaggi comporta nel film- e che permettono di percepire quel senso di assoluto che unisce i destini umani.
Quello stadio possibile di benessere interiore e sociale che su questa terra non può elevarsi ulteriormente ed è costretto a fermarsi ai margini di una compiuta e permanente felicità, ai confini del paradiso. La fassbinderiana Hanna Schygulla, che interpreta una donna tedesca che perde la figlia ad Istanbul, fa da legame manifesto tra la Germania e la Turchia e rappresenta simbolicamente il testimone di passaggio tra il grande cinema tedesco autoctono degli anni settanta e le nuove speranze del cinema tedesco integrato.
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