Avevo appena assistito alla presentazione dell’ultimo libro di Antonio Ghirelli “Aspettando la rivoluzione (cento anni di sinistra italiana)”. Ghirelli: portavoce del Pertini Presidente della Repubblica, esponente particolare del socialismo italiano, ottantacinque anni sulle spalle e una prontezza ancora sorprendente. Beh, di lui sapevo solo questo, a parte la prontezza ancora sorprendente che ho scoperto dopo. Resta il fatto che Ghirelli quel pomeriggio era venuto nella mia città di periferia, e nell’anfiteatro di una scuola media aveva deciso di raccontarci cento anni di storia italiana. Nel pubblico c’erano le docenti dell’istituto scolastico, i loro mariti, qualche conoscente, qualche assessore, il fotografo e tre ragazzi sui vent’anni, compresa la sottoscritta.
La presentazione scorre veloce, tra foto, domande, e racconti politici di partito e di vita. Se non fosse che, verso la conclusione, all’autore viene posta una domanda meno ironica di quanto possa sembrare: “Nelle ultime pagine del suo testo, lei ipotizza l’avvento di una nuova sinistra capace di riconoscere gli errori e di cambiare forma. Era questa la rivoluzione?”. L’autore risponde che no. Che di rivoluzioni ce ne sono state e devono ancora esserci. Che la speranza verso l’avvenire si rivolge ai giovani, ora troppo impegnati nei consumi per valorizzare la dimensione politica intesa come “partecipazione”.
Da lì ha inizio una sorta di dibattito trasformato presto in una sequenza di stupidaggini, insensatezze e luoghi comuni, che i presenti cominciano a disquisire a proposito dei “giovani”. Opinioni in realtà molto simili a quelle che si leggono sui giornali e si sentono in alcuni nostri programmi televisivi dalle aspirazioni vagamente sociologiche.
“I giovani non ci sono, purtroppo, come possiamo vedere questo pomeriggio. Non si sono neanche degnati di venire ad ascoltare. E ne avrebbero bisogno…eh, se ne avrebbero bisogno”. Dicono. “Tanto più non capiscono che il problema è tutto loro, che prima di prendere il potere avranno i capelli bianchi. E a maggior ragione se continuano con questo disinteresse verso la politica e lo studio”.
Ah, le voci della scuola fantasma, quella che non c’è più, quella degli scandali tra i banchi e sulla cattedra, quella dei videofonini e delle volgarità. Le docenti, i loro mariti, gli amici e tutti quelli che hanno fatto la rivoluzione solo perché nel ’68 avevano vent’anni. Loro che hanno costruito la democrazia dei “lacci e lacciuoli”. Gli assistiti dal welfare che di welfare non ce ne hanno lasciato! E fanno finta di non capire che l’innalzamento dell’età pensionabile non è una risposta alla noia senile, ma il segno che i soldi per l’assistenza sono finiti!
Chiedetevelo voi perché non ci sono i giovani in questo anfiteatro semi-deserto. Chiedetevelo voi se il problema è il loro o il vostro. “Se i giovani non condividono l’ordine vigente, lo devono contestare. Invece sono assenti, così la rivoluzione purtroppo non la faranno mai”, dice un altro ex-sessantottino.
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Con tutto il rispetto e l’ammirazione per gli ex-sessantottini, cerco di rompere la barriera di pregiudizio e provincialismo che ci separa. Prendo malvolentieri il microfono e cerco di spiegare con un filo di voce che le cose non stanno proprio così.
Che siamo generazioni diverse per visioni del mondo prima ancora che per età. Che noi la rivoluzione la stiamo facendo sotto i loro occhi troppo assonnati e pigri per potersene accorgere. Che il nostro silenzio è apparente, che la nostra è una rivoluzione tecnologica e di coscienza. Ma è una rivoluzione, e politica anche. Perché la rivoluzione non si aspetta, ma al massimo si fa, e noi le nostre scelte le compiamo ogni giorno, individualmente e collettivamente, in luoghi che occhi analfabeti rispetto agli strumenti usati non possono vedere.
Cara “generazione precedente”,
i giovani ci sono. Eccome. E stanno facendo cose di cui non vi preoccupate perché le giudicate subdole prima ancora di conoscerle. I giovani stanno fuori dalla porta, dove li avete lasciati, perché hanno capito che il potere (cioè quello che possiamo fare) passa da altri corridoi oltre che dall’ingresso principale. E nonostante la consapevolezza di non poter porre direttamente rimedio ai grossi errori del passato, i giovani trovano ogni giorno lo spazio e il tempo per non sentirsi vittime di quella “cultura del complotto” di cui vi siete fatti portavoce: esistesse un solo giovane in preda alla rassegnazione, lo sarebbe perché lo avete persuaso che non può fare nient’altro che niente. Questa è una cultura del complotto: convincere i giovani dell’inevitabilità di un destino generazionale. Perché è così che li volete, i giovani. Perché è così che vi fa comodo averli. Perché i poteri che avete, non solo non volete condividerli, ma non siete più capaci di tramandarli attraverso i saperi.
Se è vero che la nostra generazione è quella “più sacrificata”, diciamo pure come è sacrificata, diciamo pure perché. Ci avete lasciato come eredità un vuoto culturale, spirituale ed etico, che oltre i vittimismi arrendevoli stiamo cercando lentamente e creativamente di colmare.
Noi siamo gli assistiti-inghiottiti dalla famiglia: lo Stato non ci rappresenta. Noi siamo i precari nel lavoro e nell’integrità mentale, quotidianamente spronati all’adattamento e all’inventiva: il gossip di partito non ci rappresenta. Noi siamo i de-costruttori intertestuali della realtà, gli utenti e non gli spettatori: la televisione di Stato, di partito e di mercato non ci rappresenta. Noi siamo quelli del Muro di Berlino e delle Torri che crollano: quest’Italietta immorale non ci rappresenta. Noi siamo da altre parti, ma ci siamo e facciamo.
Perciò, oltre le chiacchiere del pregiudizio spicciolo, diteci voi chi sono questi “giovani” di cui ci raccontate sempre, vittime commerciali assopite nel torpore delle loro coscienze dormienti e incapaci di lottare e credere.
I “giovani”?
Ma quali “giovani”?
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