TITOLO: Goya’s Ghosts
REGIA: Milos Forman
CON: Javier Bardem, Natalie Portman, Stellan Skarsgàrd, Randy Quaid, Michael Lonsdale, Josè Luis Gomez, Mabel Rivera
SPAGNA 2006
DURATA: 117 minuti
GENERE: drammatico
VOTO: 8,5
DATA DI USCITA: 13/04/2007
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Spagna, 1972. Ines, una giovane modella del pittore Francisco Goya viene ingiustamente accusata di giudaismo ed imprigionata dalla santa inquisizione. Per cercare di dirimere la questione e far liberare la ragazza, il pittore chiede l’intercessione di Fratello Lorenzo, un uomo dell’inquisizione che egli conosce bene per avergli commissionato diversi dipinti, tra cui il proprio ritratto. Ma l’abuso del proprio potere ecclesiale costringerà l’uomo ad allontanarsi clandestinamente dalla Spagna, per tornare quindici anni dopo, dalla Francia, in una veste completamente nuova.
Straordinario. Un tributo visivo all’arte, ed al ruolo che le compete, in questa precaria esistenza terrena. I fantasmi di Goya, immortalati nei suoi dipinti, sono soprattutto aure di quell’assoluto che l’istanza artistica persegue. Bagliori di un’altera perfezione che la dimensione artistica dell’essere umano riesce ad intuire. Un’intuizione che si ferma necessariamente entro certi limiti materiali e che relega l’artista in un solitario punto d’osservazione, dal quale assistere al gran teatro del mondo e testimoniarne tutte le sue crudeli contraddizioni. La perfettibilità di una creazione umana, infatti, è l’unica trascendenza che il singolo individuo possa tentare, altrimenti l’istituzionalizzazione di quella sedicente perfezione creativa discendente, dal cielo sulla terra, è fonte solamente di abusi di potere temporale.
In questo senso il film di Milos Forman ha una facilità esplicativa subliminale che, nel cosiddetto cinema di narrazione, può pervadere la coscienza dello spettatore solo mentre si sta godendo di una ferrea struttura drammaturgica. Quando un’opera, come in questo caso appunto, riesce a palesare un’antitetica conflittualità che non si ferma soltanto alla storia narrata, ma rappresenta l’eterna condizione umana. La ricostruzione dell’ambientazione storica della Spagna oscurantista di fine Settecento, il punto di vista di uno dei più grandi pittori vissuti in quel periodo e gli imminenti sconvolgimenti politici che sarebbero seguiti di lì a poco, possono apparire come un facile spunto per parlare di questo, ma costruire un capolavoro filmico senza cadere nelle banalizzazioni e nel semplicismo non è affatto semplice.
Capolavoro, appunto.
Perché l’antitesi tra dogmatismo clericale e libertà artistica è solamente il primo livello delle riflessioni insite nel film. Il clima di terrore prescrittivo, innaturale e disumano, imposto dagli uomini di chiesa è il frutto di una millenaria dittatura spirituale, che ha saputo darsi forza speculando nelle zone oscure delle paure e delle ignoranze umane. Allo stesso tempo, per esprimersi e per vivere, la creatività umana ha avuto bisogno di essere comunque integrata nelle regole di quelle aberrazioni spirituali. Un millenario andirivieni di contrasti e di compromessi con le forme contingenti del potere costituito. Quello religioso, appunto, e quello politico, che sono sempre scesi ad acquietanti compromessi fra loro per salvaguardare i privilegi dei pochi, a scapito delle masse.
Poi la natura degli uomini, il loro trasformismo. Lorenzo, interpretato da un bravissimo Javier Bardem, è il simbolo della condizione umana. Un individuo capace di cambiare faccia nel corso della sua esistenza, da uomo di inquisizione ad illuminista napoleonico, sempre combattuto tra ideali e convenienza, ed atteso, infine, dall’incombente ed ineludibile destino di imputridimento fisico dopo l’ultima umiliazione carnale.
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Poi la crudeltà della sopravvivenza, le crisi, gli sconvolgimenti rivoluzionari e le restaurazioni, materiale che sembra dare un senso d’equilibrio al caos della vita sociale che si perpetua sempre a scapito dei molti, nonostante i cambiamenti politici. L’unica macchia - non stilistica ma etica - de L’ultimo inquisitore può essere quella di non sviluppare troppo le nobili motivazioni degli animi rivoluzionari, nella seconda parte del film, col rischio di appiattire tutte le cause ideologiche in un metafisico fatalismo.
Una nota di merito va anche ai dettagli della pellicola dove si mostrano con dovizia di particolari, merito di una notevole ricerca sugli usi contingenti, i procedimenti pittorici e di stampa dell’epoca. L’atelier del pittore e il suo lavoro in esterno, nelle corti, nelle stanze dei grandi palazzi reali.
I mezzi di tortura utilizzati dall’inquisizione cattolica e le carceri dove erano rinchiuse le innocenti vittime di quella follia. Un’ultima considerazione: la scena finale, per chi ama il simbolismo delle immagini, è uno straordinario compendio visivo dell’essenza delle diverse manifestazioni umane che Forman ha precedentemente contestualizzato nei 117 minuti del film.
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