LA VOCE DELL’OCEANO: GUEDIAWAYE
Continua il viaggio di Giuliano alla scoperta del Senegal. Tra gente straordinaria e paesaggi da scoprire, sorge una domanda: perché Mansoure è venuto in Italia?
di Giuliano Rizzi
Quando dissi a Mansoure che sarei andato in Senegal, a Dakar, se ne felicitò molto: “Eh, vedrai come è. E' molto diverso dall’Italia”. Di questo ne ero convinto anche io. Allora gli dissi che, se avesse voluto, sarei potuto passare dalla sua famiglia, sarei andato a trovarla, a portare i suoi saluti, a dire che stava bene. Dapprima fu un po’ titubante, ma poi mi diede il suo indirizzo: Guediawaye, quartiere Fith Mith, villa n° …. (non ve lo dico, privacy) e il nome della madre.

Così, una mattina, andai sulla VDN ed aspettai un taxi. Non a lungo. Se ne fermò uno, contrattai sul prezzo della corsa e partimmo. In realtà non ero troppo convinto che l’autista sapesse dove andare precisamente, ma mi feci trasportare. Ci lasciammo alle spalle il quartiere Foire, Yoff, andando verso nord. Ad un certo punto abbandonammo la strada asfaltata (che svoltava verso destra) e tutto il suo traffico e prendemmo una strada semi sterrata, con buche molto profonde, che costeggia il mare.

Viaggiavamo tra l’oceano a sinistra e case a destra, praticamente sulla spiaggia (comunque larga un centinaio di metri se non più) in direzione “Guediawaye”. Eravamo nella classica periferia di Dakar. Centinaia di persone in giro, bambini che giocavano al pallone, carretti carichi di mercanzia, ma poche auto in circolazione. Il sole era forte, caldo, generoso come sempre da queste parti. Il mare di un bellissimo azzurro che invitava a fare il bagno, ma nessuno lo faceva. Le onde straordianrie, sostenute da un vento energico, vivo.

L’autista, dotato di occhiali da sole “Ray-Ban” (veri?) a goccia, conduceva l’auto tra un buco e l’altro, schivando i pedoni e i carretti in mezzo alla strada. Sembrava sapere il fatto suo. In macchina si ascoltava musica senegalese, allegra ed ottimista, come il suo questo popolo, pieno di problemi eppure così fiducioso nel futuro, inchallah.

Con l’autista mi faceva un po’ da cicerone: “Ehi, toubab. Ici c’est Cambèrene 1”. Poi arrivammo Cambèrene 2, perdendo di vista il mare. Passammo poi dietro il campo da golf e ritornammo a godere della vista del mare, arrivando, finalmente, a Guediawaye.

Notai ancora le onde, che mi sembravano veramente grandi. Qui la strada era asfaltata e trafficata: soprattutto car rapide. I taxi non erano molti: già, chi se ne poteva permettere uno a Guediawaye, cittadina popolare alla periferia di Dakar?

Adesso dovevamo trovare il quartiere di Fith Mith. L’autista chiese. Che fortuna, eravamo proprio qui. Lo stavamo percorrendo senza saperlo: Fith Mith stava alla nostra destra e alla nostra sinistra. Ed ora il bello: trovare la casa. Uscimmo dalla strada principale e ci inoltrammo all’interno. Chiedemmo a più persone, senza risultato. Le vie erano fatte di sabbia, l’auto (l’unica che vedessi in giro) faceva fatica ad avanzare. Anche qui gente da tutte le parti, bambini che correvano e giocavano, giovani che parlavano, molti indossando il babur, altri vestiti all’occidentale, con jeans e maglietta o camicia, moltissime case in costruzione, i cui lavori sono spesso finanziati con i soldi mandati dagli immigrati (anche clandestini) in Europa. Mansoure era uno di questi.

Alla fine qualcuno ci indicò la villa. Villa? Qui le abitazioni consistevano in caseggiati simili a quelli che ci sono nei paesi in Italia, che si affacciano sulla strada, con dei portoni o delle semplici porte d’ingresso, ad uno o massimo due piani. Il portone era aperto. Io e il tassista (che decise di seguirmi nella cosa) entrammo. Ero curioso: fino ad allora non avevo ancora visto una casa popolare senegalese dall’interno. Solo villaggi della savana. Nel cortile, per metà in ombra, vi erano tre donne, due anziane e una giovane, sedute a gambe incrociate su di una stuoia, intente ad aprire arachidi, e un’altra che stava uscendo da una stanza. “Eh, toubab!”. Erano informate del mio arrivo: non sembravano così curiose di sapere chi fossi, cosa volessi, chi cercassi.
Certo erano stupite che fossi veramente là.


Mi sorrisero, risero, una delle due vecchie mi disse “Kay fi!”, vieni qua. Le due donne anziane, dall’apparente età di 60 anni, sembravano proprio delle matrone: una era la mamma e l’altra una sua amica..Non sapevano il francese. Le due più giovani erano una sorella, Thyane, e la cognata di Mansoure Amy. Che emozione. Anche e soprattutto per me. Passare quel portone fu come passare una porta spazio-temporale. Subito fui catapultato con i pensieri in quel parcheggio del supermercato a Vigevano in cui Mansoure vende le sue cose.

Mi si concretizzò, in pochi secondi, davanti agli occhi la vita e l’esistenza passata di una persona, il cui presente ci è spesso indifferente. Ero lì, nella casa e tra la famiglia di uno dei tanti “vu’ cumprà” che popolano le vie italiane. Io ero nel suo passato, mentre il suo presente era così lontano. La sua esistenza quasi apparente fino a qual momento divenne realtà. Fui per un attimo confuso e commosso. La casa era costituita da un cortile centrale grande quanto un paio di stanze e delimitato su due lati da un porticato su cui si affacciavano cinque camere e un bagno.

Di fianco al portone d’ingresso vi era una sesta stanza. Una di queste stanze era inagibile perché il soffitto era pericolante, e sarebbe dovuto essere riparato con i soldi che Mansoure spediva dall’Italia. Anche il bagno sarebbe dovuto essere riparato. Quando l’anno successivo tornai a trovarli, trovai il tetto sistemato, ma il bagno no. Nel frattempo la mamma di Mansoure divenne nonna. Conobbi anche i fratelli di Mansoure e un’altra sorella, sposata, che abita a qualche centinaio di distanza e che insegna in un liceo privato. Un fratello, Ablay, era anch’egli insegnante, mentre Modu faceva il muratore, come Mansoure prima di venire in Italia.

Insomma una situazione certo non di ricchezza, ma di relativa agiatezza sì. Il tenore di vita era sicuramente decoroso: due pasti giornalieri, colazione, Coca-Cola o Fanta da bere, quasi ognuno possedeva un cellulare, TV e videoregistratore, due diversi telefoni fissi, frigorifero, in ogni stanza (a parte la mia) un letto, un divano, qualche poltrona, uno stereo per la musica. Tutte cose che molti, a Dakar, non si possono permettere tutte insieme: si dovrebbe decidere ciò di cui fare a meno. Mi chiesi, allora, perché molti giovani, pur vivendo in una situazione di relativa agiatezza, abbandonano la propria terra, gli affetti, gli amici, le proprie abitudini, insomma i propri riferimenti vitali, per andare in un posto lontano, pieno di incognite, freddo, in cerca di fortuna. Ma quale fortuna? Il gioco vale la candela? Abbandonare un quartiere dove ci si conosce un po’ tutti, si è amici o parenti, deve essere molto difficile.

Un giorno in TV vedemmo un documentario su dei sommozzatori che scendevano nelle profondità del mare. Thyane disse che i “Toubab” (i bianchi) sono matti a fare quelle cose: “Perché lo fanno? Perché scalano le montagne e magari ci muoiono? Che bisogno c’è?”. Eh, bella domanda. Perché? Risposi che è il gusto dell’avventura, la sfida alla natura ed altre balle: non riuscii a risponderle con precisione.

La mamma era una musulmana molto ligia e devota, e pregava più volte al giorno, sempre inginocchiata in direzione est. Ero affascinato dalla sua devozione. Una volta mi disse che avrei dovuto convertirmi, che sarei dovuto diventare musulmano. Le risposi di no, perché c’è da pregare troppo.

Essendo l’unico bianco del quartiere, un giorno venni invitato ad un battesimo. La strada venne praticamente bloccata. Vennero sistemate delle sedie di plastica, quelle bianche che ci sono da noi nei bar delle piscine all’aperto, a formare un quadrato, una tenda per il sole, un po’ di musica (in realtà si trattava di preghiere e prediche musicate), bibite fresche e qualcuno che, a turno, ballava al centro dello spazio creatosi. Assaggiai il latte cagliato con zucchero (molto simile allo yogurt), tipico di queste occasioni.

Un altro giorno aiutai un amico della famiglia, un sottufficiale dell’esercito, a traslocare. Usammo un furgoncino dell’esercito e molti, al nostro passare, gridarono “Casamance”, regione del sud del Senegal in cui vi è una guerriglia tra ribelli e governo.


Durante la mia permanenza dormii nella stanza di Mansoure, su di un materassino di gommapiuma dallo spessore infimo e dalla scomodità estrema. Era come dormire direttamente sul pavimento. Spenta la luce, era interessante e stimolante ascoltare le voci, i suoni e i rumori provenienti dalla strada. La vita brulicava fino a notte fonda. Poi, quando finalmente scendeva il silenzio anche sulle vie di Guediawaye, un rombo continuo, fino ad allora inascoltato, accompagnava il trascorrere delle ore. Erano le onde dell’oceano. Sebbene fossi a un buon chilometro di distanza, la sua voce si faceva sentire con una insistente prepotenza, che tuttavia riusciva ad esaltare la bellezza e l’intensità di quei momenti, di quelle esperienze, di quei pensieri. Oltre a lui non si sentiva nessun altro. Erano le grandi onde di Guediawaye.

Guediawaye: la grande onda. Ancora oggi è uno di quei suoni, una di quelle voci che con più piacere mi piace ascoltare tra i ricordi del mio cuore. Forse è proprio la notte il momento più magico in Africa. Se doveste mai andare a Dakar, recatevi a Guediawaye a notte fonda ed ascoltate ciò che ha da dirvi l’oceano. Ne vale la pena.

Di giorno la spiaggia pullulava di ragazzi intenti a fare sport, ad allenarsi, a correre come veri e propri professionisti, sotto un caldo sole, accompagnati dalla energia del vento che soffia sempre, rinforzati dalle onde. Uno dei posti più belli e vivi che abbia mai visto. Reale.

Quando tornai a Vigevano, mostrai le foto della famiglia, del loro quartiere, delle loro vie, del loro mare con le sue onde,dei loro amici a Mansoure e a Sidy (suo amico e compagno di ventura, anche lui proveniente da Guediawaye). Sembravano come impazziti. Erano ultra felici, non stavano più nella pelle: ridevano, chiamavano per nome amici e parenti, mi chiesero se stessero tutti bene. “Mansoure, ma perché siete venuti in Italia?” chiesi. Diventarono seri. Sidy rimase in silenzio. A Mansoure scappò qualche lacrima e rispose con voce triste e di pentimento: “Eh, vai ad ascoltare gli amici”.


(09/02/2007)