Gabriel Noone è un romanziere di successo che presenta da anni una trasmissione radiofonica. In un momento di crisi professionale e sentimentale, gli arriva tra le mani il libro di memorie di un ragazzo di quattordici anni dove sono raccontate le molestie che egli ha subito dai propri genitori. Questo libro colpisce molto Gabriel; egli inizia così a trascorrere ore al telefono col ragazzo. Ma quando sarà sul punto di incontrarlo comincerà a vedere con occhi diversi Donna, colei che lo ha adottato, fino ad arrivare a dubitare dell’esistenza stessa di Pete.
Un film asettico, che non si lascia mai troppo coinvolgere dalle emozioni e dagli eventi tenuti ai margini del racconto. Un film che lascia sensazioni contrastanti: da un lato quella di aver assistito ad un’accurata ed elegante operazione di indagine psicologica all’interno dell’essere umano e delle sue patologie, senza aver voluto forzare la mano con sequenze sensazionalistiche o di forte impatto visivo; dall’altro la delusione perché le premesse della storia vengono sviluppate un pochino scontatamente e l’inerzia dello sviluppo narrativo comincia a pesare nella seconda parte del film.
Non è questione, appunto, di aspettarsi necessariamente colpi di scena eclatanti o sequenze sconvolgenti, ma più semplicemente è la pesantezza dovuta all’incapacità di variare quello stile monotono che si perpetua per tutto il film. Mentre l’atmosfera interlocutoria gravida d’attese avrebbe potuto, rendendo il film più interessante e potenzialmente più espressivo, sciogliere quest’ultime con delle sorprese meno scontate e più coraggiose. La cosa interessante di Una voce nella notte è sicuramente il confronto tra Gabriel Noone e Donna Logand, due personaggi che, seppur così diversi, condividono una necessità: quella di ingegnarsi per raccontare delle storie fantasiose.
Non importa quali siano le cause scatenanti questa necessità, quello che l’opera mette in risalto è come queste due esistenze vengano a contatto grazie alle loro fervide immaginazioni che, pur se con responsabilità differenti, inventano un referente comune e rendono praticamente viva una molto probabile, anzi quasi certa, assenza. Il protagonista è un romanziere di successo in preda ad un momento di crisi d’ispirazione.
Eppure è lui all’inizio del film che comincia a raccontarci questa storia ed è attraverso il suo sguardo, raccontato da sé stesso, che seguiamo gli eventi. Ed è sempre lui a dirci che saccheggia continuamente la sua vita privata per farne dei racconti e che, come una gazza ladra, ha sempre avuto la tendenza ad afferrare quello che luccica e a scartare il resto.
Quanto può davvero essere oggettiva una tendenza come questa? Quanto, quindi, di questa storia è inventato da Noone, e quanto corrisponde invece ad un dettagliato resoconto dei fatti? Con questo espediente narrativo il regista compenetra una volta di più le psicologie di Gabriel e Donna e giustifica l’ambiguità sul mistero di Pete Logand, che, se non si prende per scontato il racconto di Noone, si protrae fino alla fine. Altrimenti, la scena finale del film chiarisce tutto.
Sullo sfondo del film c’è il rapporto tra omosessualità e pedofilia, nelle aberrazioni dei luoghi comuni che tendono spesso ad accomunare le due cose. La sobrietà con cui Gabriel vive la sua condizione, il suo momento di crisi nel rapporto col proprio compagno e tutte le conseguenze di tale situazione fanno da contraltare alle drammatiche ed allusive immagini della sequenza dove il gruppo di pervertiti abusa del piccolo Pete. Il discorso comunque non viene assolutamente approfondito ed è meglio così, vista l’insensatezza di un simile dibattito.
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