SLOI MACHINE. IL VELENO DI UNA FABBRICA ITALIANA
In scena al Teatro Libero di Milano, uno spettacolo di impegno civile, che cerca l’equilibrio fra ironia e dramma dentro una storia che racconta di migliaia di avvelenati. Prossime repliche in Trentino.
di Stefano Zoja
Quella della S.L.O.I. (Società Lavorazioni Organiche Inorganiche) è una storia poco nota. L’informazione, in particolare quella nazionale, quasi la trascurò alla fine degli anni settanta, quando la fabbrica, una notte, s’incendiò. Ancora di più i giornali la dimenticarono negli anni precedenti, mentre molte centinaia di operai si ammalavano o impazzivano per le scorie. Perché il piombo tetraetile, un additivo della benzina, oltre che all’intossicazione portava alla pazzia. E arrivava a uccidere chi lo produceva.

I dintorni di Trento, che immaginiamo verdi e percorsi da fiumi e frutteti, sono stati il teatro di questa storia tanto italiana. Nel 1938, in concordia con le pretese autarchiche del fascismo, il chimico e industriale Carlo Luigi Randaccio apre lì la sua fabbrica. Un’avventura terminata con l’incendio di quasi trent’anni fa. Ma ancora oggi i terreni intorno a Trento sono infiltrati dalle scorie, le falde acquifere inquinate, la bonifica quasi impossibile.

E’ puro teatro della narrazione quello di Andrea Brunello: da solo sul palco per un’ora e venti minuti ripercorre con le parole e col corpo gli eventi. Raccontano le dita, il riso beffardo impastato con le musiche, la voce modulata. Raccontano la storia di operai dell’Italia postbellica, attirati dallo stipendio alto, dall’orario ridotto e da benefit di ogni genere. Pagati per ripulire i silos che contenevano il PbEt4, raggirati sul loro stato di salute. “Ci sono cose che ti cambiano la vita, ma di cui non ti accorgi fino a che la tua vita è cambiata”, dice Brunello.

La scenografia è minimale, musiche e luci si alternano per costruire un’enfasi drammatica mai sopra le righe. Ciò che lavora, che risalta, è il testo, scritto a quattro mani dallo stesso Andrea Brunello e da Michela Marelli. Brunello entra in scena ridendo, come si ride per lo sconforto: è ciò che ci propongono gli sceneggiatori, di ridere per alleggerirci, per renderci meno insopportabile la surrealtà criminale di una certa Italia. La leggerezza come chiave di accesso a una storia che, nuda, seminerebbe solo disgusto.

La notte dell’incendio, il 14 luglio 1978, ci fu un acquazzone. La pioggia filtrava e, a contatto con l’acqua, fu la soda sigillata male dentro i depositi a prendere fuoco. Vicino alla fabbrica c’era il deposito del piombo tetraetile. Se il fuoco lo avesse raggiunto, Trento sarebbe stata invasa da una nuvola di gas. Decine di migliaia di intossicati, e troppi morti. Cosa avrebbero raccontato allora, con decenni di ritardo, i giornalisti?

Ma in Italia discorso pubblico e spettacolo si impastano; la piazza viene sostituita dal palco e dal circo, non è una novità. Anche per questo vuoto è stato necessario il teatro. Il teatro civile, reso celebre da Marco Paolini e Ascanio Celestini. Ma c’è anche Andrea Brunello, che nel prospetto dello spettacolo conclude: “… la catastrofe finale, evitata per un soffio. Altrimenti tutti parlerebbero della S.L.O.I. (luglio 1978) come e più di Seveso (luglio 1976), di Bhopal (dicembre 1984) o di Cernobyl (aprile 1986)”.

Chi oltre a emozionarsi vuole conoscere può accomodarsi in platea. Quasi trent’anni dopo in un piccolo teatro di periferia.


(30/11/2006)