LA DEMOCRAZIA ZOPPA. OLTRE LE ELEZIONI AMERICANE
Le recenti elezioni di medio termine hanno portato un piccolo terremoto politico, le cui onde si avvertiranno anche al di fuori degli Stati Uniti. Ma sulla salute della democrazia, non solo americana, è ancora presto per scommettere. E’ tempo di pretendere qualcosa di più dalla forma di governo che affronterà le emergenze dei prossimi decenni.
di Stefano Zoja
“La democrazia è la peggior forma di governo, eccetto quelle sperimentate finora”. Lo diceva Winston Churchill, con quel gusto per la sentenza paradossale, che lo statista inglese sembrava avere ereditato da Oscar Wilde.

E continuava: “La democrazia funziona quando le idee di pochi riescono a soddisfare i pochi che contano”. Churchill era reduce da una lunga, prestigiosa e democratica carriera: sapeva quel che diceva e poteva permettersi di parlare.

La democrazia statunitense oggi è vitale. E’ tornata vitale dopo anni di oscurità, di obnubilamento degli elettori a suon di crociate neo-con prima e teo-con quando è diventato più conveniente, cioè un paio d’anni fa. Esultano giornalisti e politici liberali: “La forza della democrazia” scrive Ezio Mauro nel suo editoriale di commento alle elezioni di medio termine, che hanno ricacciato in gola a Bush e al suo entourage il dogmatismo teologizzante e guerrafondaio degli ultimi anni.

La democrazia è tornata forte? La democrazia è forte? Guardando alle elezioni americane dall’interno del paradigma istituzionale democratico viene da emettere un sospiro di sollievo e rispondere di sì.

C’è l’alternanza, c’è la risposta degli elettori, c’è persino la volontà di cambiamento di una prassi politica che cominciava a puzzare non solo a “quelli di sinistra”. Addirittura i sondaggi questa volta ci avevano preso. Così camera e senato sono passati ai democratici.

Sembra vero, la democrazia americana è in salute e dà bei frutti. Come l’elezione a presidente della camera di Nancy Pelosi, donna democratica, mai timida nel criticare la politica di Bush figlio.

O l’elezione di Patrick Deval nel Massachusetts, secondo governatore di colore della storia americana. O addirittura quella di Keith Ellison, avvocato di colore eletto alla camera, che resterà celebre per essere il primo musulmano entrato nel parlamento americano. Ora i conservatori controllano il potere esecutivo, non più quello legislativo. L’amministrazione Bush, che ha già sostituito al ministero della difesa Rumsfeld con Gates, un personaggio decisamente meno ideologico, dovrà cercare il dialogo con i democratici su ogni tema.

Un altro simbolo della vittoria democratica è Hillary Clinton, rieletta al senato nello stato di New York. Sfocato sullo sfondo delle fotografie che la vedono a pugni alzati sta un uomo sorridente e appena ingrigito: Bill Clinton. Esulta anche Barack Obama, quarantacinque anni, nero, un passato di cocaina, alcol e studi di legge, un presente da senatore.

Ha il sorriso profondo di chi è riuscito a sintetizzare una vita complessa, ha già scritto due vendutissime autobiografie ed è stato uno dei pochi parlamentari a votare contro la guerra irachena fin dall’inizio.

Una donna e un uomo di colore sono fra i più probabili candidati democratici alla presidenza degli Stati Uniti nel 2008, dove molti credono giungerà l’ondata lunga che si è innalzata in questi giorni.

Nel volgere di una tornata elettorale gli Stati Uniti, e dunque il mondo, sembrano avere ritrovato un equilibrio nuovo e più stabile. Sono stati bocciati gli eccessi della politica teocon e, insieme, viene rilanciata una prospettiva politica più aperta, che suggerisce un nuovo ruolo per le donne e le minoranze.


Ma questa trasformazione, viene da chiedersi, sarà abbastanza rapida e decisa? Il mondo muove i suoi passi, in apparente indipendenza dai governi e dalle volontà politiche, con una forza sotterranea e un’accelerazione che inquietano. Si affrontano in questi anni almeno due emergenze: quella geopolitica e quella ecologica. Di fronte a questi temi i sistemi politici democratici – non solo quello americano – saranno sufficientemente rapidi e coraggiosi?

Qualsiasi democrazia al mondo, anche quelle più oliate com’è il caso statunitense, si è spesso coagulata intorno agli interessi di alcuni fazioni o gruppi di pressione. Intrecci fra politici, banche, media ed enti di ogni genere affiorano ogni giorno attraverso l’informazione più indipendente o le denunce tra lobby rivali.

Il sistema democratico si distorce con grande facilità nel senso di un meccanismo vischioso e, al fondo, conservatore. Assomiglia troppo a un’oligarchia travestita. Nella quale non sembrano porsi vere alternative né di persone né di idee.

Torniamo negli Stati Uniti. Nel 1988 a Ronald Reagan succede Bush padre. Nel 1992 alla Casa Bianca entra Bill Clinton, che governerà per otto anni. Dal 2000 al 2008 è stato il turno di Bush figlio. Se nel 2008 verrà eletta Hillary Clinton, per ventiquattro anni il governo degli Stati Uniti sarà stato un affare di famiglia. Diciamo di due famiglie: i Bush e i Clinton. Una vicenda politica che solo pochi secoli fa avrebbe preso il nome meno seducente di monarchia ereditaria.

La democrazia moderna insomma, o forse la democrazia in sé, non sembra una forma di governo particolarmente illuminata e tanto meno aperta. Addirittura fatica a discostarsi da sistemi che la storia ha giudicato meno evoluti. Troppo facilmente diviene preda degli interessi degli uomini che la realizzano, della natura umana che si trasforma in egoismo politico.

La democrazia, come il televisore o persino la polvere da sparo, è un’invenzione neutra, è un contenitore che possiamo riempire come vogliamo, o, meglio, come ci viene. Le strutture possono anche essere evolute e umane, ma poi tocca all’uomo concretizzarle. E ciò “che viene” all’uomo politico nel giro di poco tempo è di pensare alla proprio casetta e quartierino, di proporre e diffondere una cultura artefatta e interessata, che possa assecondare i propri interessi.

Il privilegio elettivo riservato agli uomini bianchi di ceto alto (non solo in politica), l’imposizione dei soldi e dell’economia come valori trascinanti della società, la valorizzazione di determinati circuiti informativi e di certe forme di intrattenimento hanno origine qui.

Persino la celebrazione sacrale della democrazia trova ragione ormai molto più nella difesa corporativa che nella flebile eco dei principi che l’avevano ispirata. La cultura contemporanea è turgida eppure sterile. Ma è un problema di uomini più che di strutture.

Torniamo un’ultima volta negli Usa. Il pendolo della democrazia ora ripropone ideali più moderati e aperti. Ma è un pendolo leggero, al quale sono aggrappati solo pochi milioni di elettori instabili su una popolazione che ha superato i trecento milioni.

Dentro una nazione che da quasi un quarto di secolo viene governata secondo criteri dinastici. Qui si forgia e si diffonde una gran parte dei valori di cui si imbevono le società occidentali e non solo.

Per questo non è il momento di tirare il fiato vedendo gli ultimi risultati elettorali. Il sistema è vischioso e né la classe politica, né la società civile, sembrano sufficientemente consapevoli e trasformate. Alcune organizzazioni e attivisti sembrano i soggetti più adatti a guidare la transizione, ma sono ancora troppo poco influenti.

Eppure forse il vento sta girando e spira timidamente nella direzione migliore. Ora è il momento di nuovi segnali forti. Forse un presidente di colore, che porti con sé una visione nuova. Sicuramente un nuovo ruolo per le donne e le minoranze con le loro culture, fosse anche solo per sperimentare modi alternativi di affrontare i problemi e definire le priorità. Comunque ci vuole uno sforzo di rinnovamento che la democrazia ingrigita finora quasi mai ha attuato o consentito. Per questo tornano in mente le parole di Churchill. Stiamo nella democrazia, ma non diamo la democrazia per scontata.


(15/11/2006)