Tutta la carriera lavorativa di una donna è segnata dalla difficoltà di conciliare il ruolo di madre e quello di lavoratrice. Le donne, infatti, sono penalizzate fin dal momento dell'assunzione, quando si sentono chiedere: "Lei ha intenzione di sposarsi? Vuole avere figli?", domanda che sottintende la quasi certezza di essere scartate in caso di risposta affermativa, e in cui gli uomini sono quasi sempre preferiti in quanto non soggetti alla maternità.
In Italia, a differenza di molti paesi del Nord Europa, per le donne l'accesso alle professioni maschili e la cosidetta emancipazione femminile ha comportato, a fronte dell'indubbio vantaggio di non essere costrette a sposarsi per essere mantenute e "protette" da un uomo non amato, una situazione paradossale, ossia una crescita spropositata di pretese sociali ad esse rivolte.
Mogli e madri felici e premurose, ma anche in carriera; belle, magre, sportive e sexy, ma anche casalinghe perfette e chi più ne ha più ne metta. Troppi ruoli, di fatto impossibili da sostenere per una persona sola. Resta affibbiato alle donne quel sottile senso di colpa, quel sentirsi sempre in difetto che le accompagna in un modo o nell'altro da tutta la storia dell'umanità.
E' proprio la maternità che mostra in maniera eclatante l'arretratezza della società italiana. Il datore di lavoro accoglie sempre la notizia della gravidanza alla stregua di un'offesa personale. Dal giorno successivo a tale comunicazione, alla donna vengono a poco a poco tolti tutti gli incarichi di rilievo.
Tre mesi dopo il parto, al ritorno, la madre comincia a fare salti mortali per dedicare il tempo necessario alla cura dei figli nel rispetto dell'orario di lavoro. Considerandola inaffidabile in quanto costretta ad assentarsi in caso di malattia o di problemi dei figli, rimane ai margini dell'attività, soggetta a continui malumori e richiami più o meno espliciti da parte del capo; la sua carriera è bloccata.
Superati i primi dieci anni di vita del bambino, quando la donna potrebbe tornare in pista con sufficiente tranquillità, i giochi sono ormai fatti, le carriere decise e non può far altro che assestarsi su posizioni di basso profilo.
Le recenti modifiche alla legislazione del lavoro e il fiorire dei nuovi contratti a progetto hanno colpito negativamente le donne in maniera particolare: è infatti ormai la norma per la popolazione femminile non vedersi rinnovare i contratti a tempo determinato proprio all'inizio della gravidanza, ritrovandosi senza entrate quando ne avrebbe maggiormente bisogno.
Esistono alternative? La prima è quella di rinunciare alla maternità o, al massimo, di fermarsi al primo figlio: una strada sempre più percorsa dalle donne italiane, accusate per questo di egoismo, immaturità, rifiuto delle responsabilità.
La seconda è quella di trovare un marito ricco, percorso anche questo ancora molto battuto, che alimenta l'eterna considerazione negativa delle donne interessate solo al denaro e pronte a "vendersi" per un buon conto in banca.
La terza strada è quella di affidare la crescita della propria prole ai nonni, per quelle che hanno genitori e/o suoceri a completa disposizione, salvo comunque dover sottostare - di nuovo! - a scelte educative e a volontà parentali dalle quali si era sperato, crescendo, di essersi emancipate definitivamente.
Cosa offre attualmente lo "stato sociale" ad una lavoratrice madre, a basso reddito e senza aiuti familiari? In aggiunta ai tre mesi post-parto, sei mesi di astensione facoltativa per maternità, retribuiti al 30% dello stipendio fino ai tre anni di età del bambino, poi utilizzabili senza alcuna retribuzione fino agli otto anni del figlio.
Asili nido insufficienti, ai quali si accede praticamente solo se si è extracomunitari, figli di detenuti o nullatenenti; nidi e scuole materne e primarie che terminano alle quattro del pomeriggio, chiudono tre mesi l'anno e settimane intere a Natale e Pasqua. Nient'altro.
E dopo le quattro? E durante le vacanze? Se una donna lavora dalle nove alle diciotto e impiega un'ora nel tragitto casa-lavoro, chi accudirà suo figlio dopo l'uscita dalla scuola? Ecco l'esercito delle donne filippine, rumene, polacche, africane, baby sitter improvvisate e disposte, per poche centinaia di euro, a passare le giornate con i nostri bambini, quasi sempre in nero, spesso clandestine, licenziabili senza problemi: altre donne senza diritti, che hanno lasciato i loro figli o hanno rinunciato ad averne per crescere quelli di altre donne che non possono farlo da sé.
Lo Stato continua a fare affidamento sul supporto di nonni, che sempre più frequentemente abitano lontano, sono ancora impegnati o viceversa, dato l'innalzamento dell'età alla quale si mette al mondo il primo figlio, non sono più in condizioni di accudire creature piccole sì, ma bisognose di energie fresche e quasi inesauribili.
Le città impongono distanze che moltiplicano le difficoltà delle madri nell'accompagnare i figli a scuola come alle attività extrascolastiche e alle visite mediche, tanto più quando queste necessità, sia pure ridotte al minimo, ricadono nell'orario di lavoro.
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Le lavoratrici madri vivono giustificandosi. Ma nel mondo del lavoro non esistono giustificazioni per un bambino che si ammala (dopo il primo anno di età sono previsti solo cinque giorni l'anno di assenza per malattia del figlio, non retribuiti), non dorme la notte, vorrebbe vedere sua madre più di mezz'ora al mattino e un'ora alla sera.
L'essere stanchi al ritorno dal lavoro è purtroppo per moltissimi uomini ancora una motivazione che ritengono assolutamente valida per non alzare un dito dal momento in cui varcano la soglia di casa fino a quando non escono il mattino successivo.
Ma la donna che torna esausta dal lavoro non fa altro che iniziare un "secondo turno": fa la spesa lungo la strada, cucina, dà la pappa al bambino, lo lava, lo mette a nanna, pulisce la casa, fa il bucato, finchè non crolla addormentata per ricominciare da capo la mattina dopo: rifà i letti, prepara la colazione, ritira i panni, accompagna il bambino a scuola, corre al lavoro arrivando affannata all'ultimo istante, guardata male dai colleghi maschi, dalle poche donne dirigenti - nubili o ricche di famiglia, con tre baby sitter e domestiche al proprio servizio - e dalle stesse ragazze fresche di studi, truccate, ben vestite, rampanti e incuranti di problemi che loro stesse prima o poi dovranno fronteggiare, e che, per il momento, sono già lì dalle otto di mattina...a chiacchierare alla macchinetta del caffè.
Quando una donna ha un figlio svolge un compito sociale di primaria importanza, per il quale dovrebbe essere tutelata nel migliore dei modi e messa in condizione di aprirsi alla maternità senza ansie e senza limiti non dipendenti dalla propria volontà. Eppure la politica continua di fatto ad ignorare il problema, al di là delle parole vuote e dei provvedimenti ridicoli (1000 euro di bonus a partire dal secondo figlio: ma questi signori sanno quanto costa avere un figlio?).
"Per crescere un figlio ci vuole un villaggio", dice un proverbio africano. Oggi un paese che voglia dirsi civile dovrebbe:
- provvedere all'apertura di asili nido e scuole materne in grado di soddisfare in maniera capillare le esigenze della popolazione;
- assicurare alla madre (o al padre) uno stipendio statale almeno fino al terzo anno di età del bambino e consentire fino a quell'età al genitore di accudirlo personalmente, garantendo la conservazione del posto di lavoro, come peraltro già accade in Germania;
- retribuire completamente i mesi di astensione facoltativa per maternità;
- sostenere la responsabilità paterna istituendo, come già è previsto dalla legislazione svedese, l'obbligo dell'astensione maschile dal lavoro per alcuni mesi per "paternità";
- riformare la scuola in considerazione dei mutamenti sociali avvenuti negli ultimi cinquant'anni e far coincidere l'anno scolastico con le esigenze dei genitori lavoratori, prevedendo, all'interno dell'orario, anche attività formative diverse, a partire dall'offerta seria di attività sportive, un lusso oggi quasi sempre relegato alle costosissime scuole private;
- mettere ogni scuola in condizione di attivare servizi di "scuolabus" per portare e riaccompagnare i bambini alle loro case;
- stabilire una flessibilità nell'orario di lavoro di chi ha figli;
- tutelare le donne che svolgono lavoro precario, impedendo il licenziamento "per maternità".
Con questi provvedimenti di certo verrebbe meno il 90% dei motivi di penalizzazione e discriminazione femminile sul lavoro e il risultato non potrebbe che essere una crescita del benessere collettivo e conseguentemente dell'economia della Nazione.
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