|
ASPETTANDO LA REVOLUCION! L'IDEOLOGIA E LE URGENZE DEL TERZO MONDO
|
Un vertice di intellettuali da tutto il mondo, riuniti a Roma presso la sede della Fao per discutere delle sorti dell’umanità. Gruppi di lavoro mossi dalle migliori intenzioni. Ma lo scollamento di intellettuali e istituzioni dai temi e dagli abitanti del sud del mondo ha ridimensionato un evento che probabilmente lascerà poche tracce.
|
di Stefano Zoja
|
Il palazzo della Fao, a Roma, è un luogo imponente. Sette o otto edifici uniti fra loro, alcuni di otto piani. Scaloni ampi, tappeti eleganti, vetrate e piante. Le sale di lavoro, ciascuna dedicata a una nazione, sono arredate con cura, a volte con gusto esotico. Sul tetto si pranza all’aperto, in una serena confusione di lingue, volti e abiti che provengono da quasi tutto il mondo. Qui si spalanca la visuale verde e millenaria che offre Roma, sotto il sole caldo di metà ottobre, quasi uno sberleffo all’autunno iniziato da un pezzo.
Qui, fra l’11 e il 13 ottobre 2006, si è svolto il “IV Encuentro Mundial de intelectuales y artistas en defensa de la humanidad”. Il prodigo organizzatore è stata l’ambasciata del Venezuela di Hugo Chavez. E sono soprattutto sudamericani e centroamericani gli intellettuali giunti qui, insieme a un po’ di europei (con una timida presenza italiana) e africani, pochi anglosassoni e pochi asiatici. I pervenuti coprono un raggio che va dalla sinistra all’estrema sinistra, anche se spuntano qua e là figure come quella di James Baker, ex segretario di stato americano durante l’amministrazione di Bush padre - non proprio un guerrigliero zapatista - e ora oppositore di Bush figlio. Una brigata eterogenea ma concorde, che si ritrova per tre giorni di pensieri e, si spera, iniziative sulle sorti del mondo. Inquieta però l’astrattezza del tema: “la difesa dell’umanità”. Da chi? Da cosa? Riguardo a cosa?
Dopo una presentazione generale dell’evento si riuniscono i singoli gruppi di lavoro, circa una decina, composti da dieci – venti intellettuali ciascuno. Tra i macrotemi su cui si dibatte: la libertà d’informazione, la partecipazione popolare, la sovranità e la legalità internazionali, la solidarietà e l’integrazione dei popoli. Il tempo è poco, gli intellettuali si accomodano nelle loro sale, ciascuno coi suoi appunti e le sue idee. Si parla soprattutto spagnolo, ma anche inglese, francese e italiano; chi vuole ha a disposizione la traduzione simultanea. L’obiettivo è che ogni gruppo giunga alla mattina dell’ultimo giorno con un documento che sintetizzi le proposte emerse: tutto finirà per confluire in un documento ufficiale unico che sarà presentato alla stampa nel pomeriggio conclusivo.
Parole, parole che si susseguono a fiumi, in un’atmosfera serena, o caotica, o tesa. Dipende dai gruppi, dalle varie fasi in cui si trovano i dibattiti. A volte ci sono problemi di traduzione, a volte di metodo, raramente ci si accende sul merito. Le visioni politiche sono troppo omogenee per produrre un vero dibattito. Ci si attendono però proposte di iniziative concrete.
Ma girando fra le sale si ha l’impressione di una certa sterilità dei lavori: monologhi più che dibattiti, difficoltà con le lingue o con l’organizzazione pratica dei lavori, pause infinite in cui gli intellettuali emigrano in massa e vanno a svernare davanti ai buffet. La velocità con cui alcuni pucciano la brioche nel caffè non sembra memore dei tempi ristretti dell’assemblea, né della fame nel Congo. Ma tant’è. Alla ripresa dei lavori c’è chi si scalda e c’è chi, letteralmente, dorme, magari nelle retrovie della sala, magari appesantito dall’età o dalla brioche.
Anche sui contenuti non promette troppo bene. In tutti i dibattiti i concetti cardine, nemmeno fossero state le parole d’ordine per accedere alle sale, sono capitalismo e socialismo. Naturalmente nel senso che il primo ha fallito, e il secondo è la via d’uscita. “No hay tercera via!”, non esiste una terza via, come urla un giovane intellettuale messicano, dando inizio a una delle scene più significative di questi giorni di dibattito.
|
|
Camicia bianca, foga latina, il giovane insiste su concetti che suonerebbero poco familiari anche ai Cossutta di casa nostra. Rilancia l’urgenza del socialismo reale, passa alcuni minuti citando vari libri di suoi colleghi, poi si accascia sullo schienale. E’ il turno quindi di una donna kenyota, labbra sporgenti e naso largo e schiacciato, sguardo solido, che contrasta e insieme si sposa con il suo vestito colorato. Nel giro di venti secondi liquida la discussione su socialismo e capitalismo, che andava avanti da un’ora filata.
“Non mi sembrano concetti utili, importanti per una certa umanità”. Comincia a parlare di sete, di uomini e donne che non mangiano per giorni, di persone cui è negata ogni altra vita perché spendono ore nelle loro giornate alla ricerca di cibo e acqua che magari nemmeno trovano. Parla, di patate, fogne, aids. Il volto si tende, gli occhi si assottigliano, il volume del suo inglese è quello a cui vorrebbero parlare, se fossero qui, gli uomini e le donne che lei ha incontrato per anni nelle città e nei villaggi kenyoti. Finisce e si risiede, quasi arrabbiata; scatta un applauso da parte dei suoi colleghi. Poi torna il silenzio e prende parola un sudamericano barbuto: “cari amici, il socialismo…”.
Usciamo dalla Fao per un attimo. Il giorno successivo alla conclusione del vertice i giornali rilanciano la notizia dell’ultimo premio Nobel, assegnato a Mohammed Yunus, inventore del microcredito. Yunus è un economista, che ha escogitato un sistema semplicissimo e geniale che sta migliorando le condizioni di vita di milioni di persone. I poveri del mondo non possono chiedere prestiti alle banche, che chiedono garanzie insostenibili per chi vive in quelle condizioni; l’alternativa erano gli usurai, finché non è arrivata la Banca Etica di Yunus. L’idea è semplice: dare fiducia ai poveri, concedendo prestiti limitati, fino a cento dollari nei paesi più disagiati, in modo che questi possano dare inizio a una piccola attività. Nessun prestito ulteriore viene concesso fino alla completa restituzione del primo. Ma il 98% dei beneficiati, soprattutto donne, restituisce il dovuto. E può accedere a un nuovo prestito per ampliare ulteriormente la sua attività.
Si parla di tappeti, fiori, galline. Per commerciare questi prodotti, ed emanciparsi dalla miseria, occorre un minimo capitale iniziale. Con cento dollari ottenuti grazie al microcredito Turpekai, una donna afghana, ha comprato il materiale indispensabile a realizzare un tappeto. Lo ha rivenduto a duecento dollari: con il guadagno ha potuto far studiare i figli. E ora lavora in proprio. Yunus ha semplicemente dato un’occasione concreta ai poveri del mondo: gli ha permesso di comprare due galline, qualche seme, o un po’ di tela. E ha sfruttato alcuni fra i più semplici principi del capitalismo (!) per dare la possibilità ai diseredati di emanciparsi.
Ma non importa qui che si tratti di capitalismo o socialismo, non è la sede per parlare dei guasti o dei meriti di uno o dell’altro. Importano le patate e le galline. Importa la semplicità dei discorsi che riescono a smuovere realtà che appaiono immodificabili. Bisogna ricordarsi e dire prima di tutto che se si è mangiato e bevuto, si hanno le forze e il tempo per occuparsi di altro. E che senza non si vive. Di capitalismo e globalizzazione si parlerà, perché la sazietà e il benessere si raggiungono anche per via dei (massimi) sistemi, ma sarà meglio farlo più tardi.
|
|
Torniamo alla Fao. I politologi latinoamericani hanno preso in ostaggio alcuni tavoli, in altri si dibatte di proprietà intellettuale o, peggio, si spende un’ora e mezza a organizzare la forma di un documento finale che dirà poco. C'è una differenza forte fra intellettuali dei cosiddetti terzo e secondo mondo. I primi traggono la loro concretezza dal drammatico sottosviluppo dei paesi da cui provengono; i secondi, molto più numerosi, sono figli di una forte tradizione culturale anticapitalista e antiamericana e arrivano da paesi in cui le condizioni del popolo sono in generale meno disperate. Così, ciascuno tende a parlare di ciò che più spesso ha visto e sentito.
In alcuni gruppi va meglio: i temi sono i sussidi all’agricoltura dei paesi ricchi, ci sono persone che riconoscono le vere urgenze, come una giovane tedesca che minaccia di ritirarsi dal tavolo per la fumosità delle discussioni. In molti casi il documento finale del gruppo conterrà enunciazioni di principio o poco più. La conferenza stampa conclusiva, nella quale si sarebbero dovuti presentare i risultati dei lavori, viene annullata. Una prima voce dice che non si è raggiunto un accordo su un documento conclusivo, poi pare di capire che l’annullamento è dovuto allo svuotamento dell’assemblea nelle ore finali: la conferenza di chiusura sarebbe apparsa in tv quasi deserta. Si opta per un comunicato ufficiale che viene trasmesso alle agenzie di stampa.
La mattina seguente lo Sheraton è ormai quasi deserto, gran parte degli invitati sono già ripartiti. Qui l’ambasciata venezuelana ha ospitato le centinaia di partecipanti al convegno. 220 euro a notte per ciascuno. Vedo l’intellettuale kenyota seduta su un divanetto della hall in attesa dell’autobus che la porterà all’aeroporto. Ha l’aria stanca, ma decido di avvicinarmi ugualmente per scambiarci due chiacchiere. Dopo pochi minuti si anima come l’avevo vista un paio di giorni prima, durante il suo intervento. Dice cose come “gli uomini danno vita alle idee, ma non sono le idee a dare vita all’uomo”. I suoi occhi sono incredibilmente acquosi, visti da così vicino. Sta per tornare in Kenya a lavorare nei villaggi. Dice che nel 2007 il Social Forum mondiale si terrà a Nairobi, nel suo paese. E sorride.
|
|
(17/10/2006)
|