Mi invitano ad un convegno su un tema a me molto caro (non lo specifichiamo, perché non è importante. La situazione qui descritta è quella standard in questo tipo di contesti). Mi presento puntuale ,entro nella sala conferenze, mi siedo. Di fronte a me, seduti dietro una lunga scrivania, cinque importanti “esperti” (4 uomini e una donna) in camicia e giacca (anche la donna). Tre uomini su quattro portano una cravatta.
Il tema, pur interessante, è trattato in maniera molto ostica. Anche l’ambiente è ostico: intorno a me, una sala “fredda”, con le pareti spoglie, la luce verdognola. Su uno schermo, dietro i partecipanti, vengono proiettate le immagini mosse dei loro primi piani, ingigantiti a dismisura.
Cerco di seguire, ma la mia attenzione è vaga. Comincio a sbadigliare, mi guardo intorno, leggo gli appunti. Il pubblico è silenzioso. Ascolta o finge di ascoltare. Non interviene, non reagisce.
L’esperto snocciola dati, afferma concetti. Quando riesco a seguire, mi rendo conto che l’argomento mi interessa moltissimo, ma è veramente dura non distrarsi. Il relatore di turno porta avanti il suo monologo con tono piatto. Vengono utilizzati termini tecnici, un gergo specialistico (che diavolo è un “filare”?), eppure dovremmo trovarci in uno spazio e in un momento di “divulgazione”, con molti giornalisti invitati a partecipare.
A un certo punto, vengo colto da una sorta di claustrofobia esistenziale. Vorrei alzarmi e urlare.
Perché hanno tutti la giacca? Un elemento così comune e diffuso come la giacca si trasforma dentro di me in un simbolo delle mura di incomunicabilità che giorno dopo giorno sono state innalzate nella nostra società. Una volta, la gente veniva “tenuta” nell’ignoranza. Oggi, si è diffusa l’alfabetizzazione e allora si sono inventati nuovi modi di reprimere la diffusione delle idee, della conoscenza, della coscienza.
Chi è stato e perché? Che significa? Perché è sconveniente presentarsi in tv, in parlamento o a una conferenza con un elegante maglione o una felpa colorata?
Perché la scienza, la cultura, la politica, devono essere “pallose”, fredde, asettiche?
Perché non si tollera l’utilizzo di abbigliamento casual in situazioni pubbliche, ma si ammette la presenza di pregiudicati in parlamento? Negli studi televisivi, così come nelle aule parlamentari si accetta serenamente la volgarità dell’animo, ma non il colore, non l’originalità, non l’“umanità”.
E tutto questo, nella “vecchia Europa”, culla della cultura e della conoscenza umana…
Non sono certo un filo-americano. Critico, ho criticato e sempre criticherò molti aspetti del modo di vivere e di pensare USA, dall’aver commercializzato tutto, ad alcune politiche criminali.
Ma negli Stati Uniti, se vogliono comunicare qualcosa, si sforzano di farlo veramente. Anche col rischio di sforare in eccessi imbarazzanti e in un’“infotaiment” (l’incontro tra informazione e intrattenimento), che spesso è più “taiment” che “info”. Ma almeno ci provano!
Da noi, invece, tutto è paludato, ostico, incomprensibile. Le persone vengono spinte lontano dalle informazioni, dai dibattiti (il dibattito no!), dagli approfondimenti, dritti verso il vuoto totale dei reality sempre più irreali, dei varietà sempre meno vari, delle pupe sempre più finte e dei secchioni sempre più sfigati.
L'immagine è tratta dalla campagna "Human Condition", a cura di Anur Hadziomerspahic, importante designer bosniaco.
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Sembra che la possibilità di trasmettere la conoscenza spaventi anche chi, come gli organizzatori di questo convegno, sembrano volerlo fare in buona fede.
E allora, perché a questa conferenza non si sono presentati cinque persone, anziché cinque giacche? Perché il convegno si è svolto nel grigiore, anziché in una stanza arricchita da grandi poster che illustrassero l’argomento, con musiche e filmati e tabelle e schede illustrative preparate con largo anticipo per chiarire meglio i concetti complessi?
Perché non usare un linguaggio semplice, non banale, ma accattivante, comprensibile, umano?
Difficile trovare risposte. Capire se questo processo di alienazione esteriore e interiore che stiamo vivendo sia in qualche modo voluto o sia una semplice conseguenza di azioni sbagliate (o di mancate azioni).
In ogni caso, la società italiana è sempre più vittima di se stessa. Tutto è forma e niente è sostanza. Ma anche la forma è piatta, bidimensionale, noiosa e apatica.
E molti di noi finiscono col trovarsi sempre più alieni nello spazio in cui ci muoviamo, nel tempo in cui viviamo. I decenni passati sono stati ricchi di eccessi. I movimenti politici degli anni ’60 e ’70, il riflusso godereccio degli anni ’80, il finto risveglio degli anni ’90.
Ma almeno succedeva qualcosa.
Si aveva la sensazione di muoversi in una società ricca di contraddizioni, ma con dei retroterra comuni, degli ideali, anche se spesso contrapposti, delle persone e non dei personaggi, da incontrare, conoscere, scoprire.
Oggi tutto sembra essere grigio, piatto, incomunicabile. Il contenuto è sempre meno importante. Ciò che conta è il contenitore. Come diceva un mio “capo”, a proposito della realizzazione di un video, “dopo la sigla niente”, conta solo l’involucro, il primo impatto, la confezione
E a noi cosa rimane? Rimangono cinque individui con la camicia e la giacca. Una stanza grigia. Una luce verdognola. Tanta noia, tanta apatia, tanta solitudine. E nell’era dell’informazione, dei telefonini, di internet, poca, pochissima comunicazione.
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