THE BLACK DAHLIA
TITOLO ORIGINALE: The Black Dahlia REGIA: Brian De Palma CON: Josh Hartenett, Scarlett Johansson, Hilary Swank, Aaron Eckhart USA 2006 GENERE: drammatico VOTO: 8
di Emanuela Graziani
Los Angeles, 1947. Due amici poliziotti, Blanchard (Aaron Eckhart) e Bleichert (Josh Hartnett), indagano sulla tragica morte di una prostituta di nome Elizabeth Short, nota come la Dahlia Nera. Il corpo martoriato della giovane viene ritrovato sulle colline di Hollywood. Durante le indagini, uno dei due poliziotti conosce l’intrigante Madeleine Sprague (Hilary Swank), figlia di uno degli uomini più importanti della città e che si rivela stranamente connessa alla vittima.

Brian De Palma torna alla regia, dopo l’insuccesso di Femmes Fatales, con una pellicola dal sapore noir e maledettamente contemporaneo. Tratto dal romanzo cult di James Ellroy, uno dei maestri maggiormente ispirati degli ultimi tempi e autore dell’apprezzato L.A. Confidential, il film di De Palma rievoca le atmosfere morbose di una Los Angeles disincantata, avida di potere e figlia della corruzione in un clima di crescente suspance e terrore.

Lontana dai fasti della “fabbrica dei sogni”, la città degli angeli è ritratta attraverso lo squallore di ambienti abbietti e perversi, imprigionati dietro l’obbiettivo di una macchina da presa affamata di illusione e di morte. Seguendo la scia di “L.A. Confidential”, il più famoso romanzo di Ellroy, rimasto scosso dall’omicidio della madre quando era ancora un bambino, la trama di “The black Dalia” è tessuta con fili di perle e pallottole in un’atmosfera viziata e insana, fatta di omicidi e personaggi irriverenti. Nel tradurre il tutto sul grande schermo De Palma mostra una notevole abilità registica.

La narrazione, sostenuta da una fotografia che favorisce, per l’accentuazione dei toni chiari su sfondo scuro, una visione d’insieme inebriante e, al contempo, equivocabile, mira a coniugare la duplicità insita in ogni essere vivente, diviso fra il bene e il male, l’amore e l’odio, la guerra e la pace. Lo stile visivo del film si nutre di primi piani introspettivi e carrellate vertiginose, volte a distorcere la realtà sognante di una Hollywood sconvolta dal tremendo omicidio di Elizabeth Short, prostituta e aspirante attrice, musa del vizio e del tormento.

Il truce assassinio della giovane dai boccoli corvino, simboleggia il tema del doppio e dell’ambivalenza umana, di ciò che sembra suggerire le azioni più oscure del nostro operare e che rende evidenti le crepe di cui siamo fatti.

L’archetipo bene/male convive nella rappresentazione cinematografica del best seller, ma le fondamenta della pellicola si strutturano grazie alla presenza di un linguaggio individuale prettamente metaforico.

Ogni scena, ogni semplice fotogramma, ispira significati che vanno al di là dalla comprensione comune, lasciando spazio all’interpretazione individuale e soggettiva. L’amore, che nel film è rappresentato dall’unione platonica di Bleichert con Kay, donna del suo migliore amico, è macchiato dalla carica peccaminosa di relazioni a luci rosse che si consumano nell’inferno della violenza in una periferia dimenticata da Dio.

I Triangoli amorosi diventano allora torbidi
e ambigui, introdotti da una nerissima voce fuori campo che ne descrive l’essenza, la dinamica distorta ma poi, in quelle splendide scenografie di Dante Ferretti, vivide di luce e di colore e in quei primi piani trasognanti di occhi malinconici, scorgiamo la vera natura dell’amore umano, a volte soffocante e raramente disinteressato, ma pur sempre necessario alla creazione di quella stoffa shakespeariana di cui tanto siamo fatti.


(04/10/2006)