Raccontare il passato, riesumarlo dalla coltre di polvere e dimenticanza e falsi ricordi in cui spesso si perde e analizzarlo, sezionarlo, comprenderlo alla luce del futuro, di ciò che poi si è verificato.
Un lavoro di lima sulla persona adulta di Jean-Paul Sarte che guarda a se stesso come il bambino nascosto tra i libri del nonno e tutte le contraddizioni dell’infanzia, combattuto tra la voglia di essere e quella di non essere; fino all’autentica comprensione esistenzialista della realtà come incrostazione, come peso incancellabile e responsabilità del singolo.
Egli ricorda, probabilmente in maniera filosofica, l’età dell’oro dell’infanzia in cui si formano consapevolezze – allora inconsapevoli – della persona che poi si diventerà. “Non smetto di creare me stesso”.
Un bambino, forse, non lo sa.
Ma quello che conta, sottolinea Sartre, è che al dunque sia effettivamente così. Un work in progress, un mondo da scoprire e da cui essere scoperti: il bambino che si compiace della propria esistenza e non ne vede i limiti, il bambino che sa stupirsi, che sa guardare oltre e sotto le etichette.
C’è sempre un marchio con cui gli adulti amano contraddistinguersi e il piccolo Jean-Paul, figlio della borghesia francese, avverte con chiarezza i limiti del proprio ceto sociale e, con occhi di bambino, li vede attaccati ad ideali che sono riflesso di un passato che non gli appartiene:
“Questi borghesi modesti e fieri considerano la bellezza al di sopra dei loro mezzi o al di sotto del loro stato sociale”. E, appartenente ad una classe sociale di cui talvolta si compiace (scrive che niente lo divertiva di più che giocare a fare il bravo bambino), egli si isolava dal banale cimitero della propria classe sociale e rimaneva nella follia dei libri a cercare la vita, quella che Heidegger avrebbe definito autentica: e nei libri egli scopriva pensieri inquieti e inumani “…le cui pompe e le cui tenebre erano oltre le mie capacità di comprendere”; i personaggi prendevano vita davanti ad i suoi occhi, in un mondo dentro il mondo, il mondo della letteratura.
Si definisce un bambino immaginario che si difendeva dalla vita con l’immaginazione e, riguardando all’età tra i sei ed i nove anni, si sorprende – ormai da uomo – dei suoi continui esercizi spirituali.
Amava l’inquietudine della pioggia e la passione per il cinema, amato perversamente per quello che in esso ancora mancava: “assistevo ai deliri di una parete; erano riusciti a liberare i solidi da quel senso di massiccio che mi ingombrava perfino nel corpo e il mio giovane idealismo si compiaceva di questa infinita contrazione”.
Si incantava a vedere l’invisibile, l’incurabile mutismo dei suoi eroi sullo schermo e la musica, unico mezzo di comunicazione sonora, era il rumore della vita interiore dei personaggi, il pianoforte imponeva il suo ritmo. E fu lo slancio cinematografico, l’ispirazione muta, a fare di lui un letterato, “deliziosamente noioso”; un letterato in erba che approfittava delle malattie, delle vacanze scolastiche, della ricreazione e della domenica per portare avanti con assiduità i propri testi, semiclandestini: proiettava nei propri eroi se stesso, disegnando in loro i propri sogni epici.
Racconta Sartre, uomo immaginario ma presente in ogni piega della realtà circostante, che a quell’epoca, in mancanza di nemici visibili, la borghesia aveva piacere a spaventarsi della propria ombra barattando la propria noia con un’inquietudine programmata. E poi, la guerra: una guerra vista con gli occhi di un bambino che se ne disamora presto perché sconvolse poco il suo mondo e perché rovinava le sue letterature, finché smise di scrivere e si chiuse nel proprio riserbo; a quattordici anni rispondeva, abbandonati ormai i sogni di gloria, che da grande avrebbe fatto lo scrittore, si limitava ormai a descrivere il mondo intorno – dimenticandosi congiuntamente della guerra.
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