LETTERA A UN BAMBINO MAI NATO. ORIANA FALLACI: NASCERE E’ UNA SCELTA?
ORIANA FALLACI

Lettera a un bambino mai nato è stato scritto nel 1975 in seguito alla perdita di un figlio ed libro di non più di cento pagine in cui Oriana Fallaci riesce a condensare il travaglio di una donna di fronte ad una maternità inaspettata. È un libro difficile, la storia di un trauma. La Fallaci ha l’onestà intellettuale di trattare un tema spinoso come quello dell'aborto che si snoda però attraverso il dialogo di una donna con il bimbo che porta in grembo.

di Azzurra De Paola
Un cordone ombelicale dalla madre al figlio, dalla testa al cuore. Dalle ragioni della donna alle ragioni della mamma. Il dramma dell’aborto, l’incertezza della gravidanza e il dubbio martellante che forse non si è pronti a fare i genitori. La responsabilità di un’altra vita. E la protagonista del libro si domanda perché mettere al mondo un figlio: cosa abbiamo da offrire alle nuove vite? Qui, la donna in questione non ha nome né volto, lei è la Donna, quella che ogni donna diventerà, con cui dovrà misurarsi.

E la maternità, affrontata da sola con uomo che non sa cosa sia sentire una vita crescere dentro. Un corpo nel corpo. Una vita nella vita. A mala pena ce la si fa a vivere la propria vita, figurarsi portarsi addosso il peso di un altro; benché non sia altro che un pezzettino di carne in fondo allo stomaco. E, poi, per farne che? Si fanno figli affinché facciano figli, per la continuazione della razza umana: una madre convince un figlio che sia bello vivere, cadere dal nulla; potrebbe però non essere capace di vivere, quel bambino, e mal sopportare gli orrori e le mostruosità del mondo.

C’è tanto da discutere sulla moralità o l’immoralità dell’aborto, sul momento in cui una vita sia degna di essere definita tale. L’etica scientifica. La morale cattolica. Ma questo prescinde dalle sensazioni della maternità, della donna, del singolo che affronta l’argomento. L’amore per un figlio, anche nove mesi prima che nasca, è involontario, innato, forse precedente ad ogni sovrastruttura mentale, ad ogni nozione culturale e ad ogni normativismo.

“Ho deciso per te: nascerai. L’ho deciso dopo averti visto in fotografia. Non era proprio la tua fotografia, evidente: era quella di un qualsiasi embrione di tre settimane”. La lunga e travagliata decisione di portare una gravidanza e poi, buttarla via. Buttare via una vita, che si già considerata tale o no.

Qualsiasi cosa sia, è lì, in fondo allo stomaco: cambiare idea ed umore, perdonare un uomo che ha avuto la forza di tornare dopo essere stato scacciato per viltà, per noia; cambiare, troppo in fretta e senza appigli, come la caduta in uno spazio sconosciuto dove non c’è nessuno a cui chiedere informazioni. La paura della perdita di libertà, il sentire il proprio corpo in balìa di un altro essere, sia anche un figlio: “Forse dovrei tacerti per ora le brutture e le malinconie, forse dovrei raccontarti un mondo di innocenze e gaiezze. Ma sarebbe come attirarti in un inganno, bambino”.

E che senso ha essere onesti con un esserino che non ha la possibilità di scegliere se nascere o restare nel suo niente? Nessun senso ma la grandezza e la dignità del sentirsi madre a trecentosessanta gradi, anche prima di esserlo. Sentirsi morire, nella caduta libera.

E, cos’è, paura quella che ci fa aggrappare alla vita quando sentiamo che ci sfugge? Scegliere la propria vita, in nome delle cose da finire contro quelle dell’embrione, ancora da iniziare - biasimabile o meno che sia la scelta- è tale. Tant’è che, alla fine, questa donna abortisce. E tutti che si affliggono per i dolori e le avversità che ha dovuto affrontare; non una parola sulla vita morta perché, se anche si comprende la valenza dell’aborto e la si giustifica e lo si reputa una soluzione a determinate situazioni obiettivamente complicate, c’è sempre un essere – se non lo si vuole chiamare bambino – che muore.

“Riuscisti appena a realizzare il desiderio di due mani e due piedi, qualcosa che assomigliava ad un corpo, l’abbozzo di un volto con un nasino e due microscopici occhi. In fondo amai un pesciolino”. Ed è facile comprendere le ragioni di un aborto, al di là delle demagogie e dei moralismi. Ma questo libro spinge un pugno nello stomaco, è una stretta alle ideologie politiche ed alle prese di posizione, raccoglie le grandi contraddizioni dell’essere umano per chiuderle in una lacrima, pesantissima che fori il silenzio. E guardi le cose per quello che sono, senza inutili demagogie.


(14/09/2006)