Una vecchia acciaieria italiana cede ad acquirenti cinesi un altoforno. La fabbrica viene dismessa e il manutentore Vincenzo Buonavolontà compie un viaggio in Cina per porre rimedio a un difetto della macchina, un guasto che trascurato potrebbe scatenare incidenti gravissimi e fare vittime. Il suo è un viaggio reale e interiore in un Paese immenso e contraddittorio, produttivo senza confronti eppure poverissimo. Lo accompagna una giovane ventenne che lo aiuta a raggiungere la fabbrica e gli insegna qualcosa di nuovo sul suo popolo e anche su se stesso.
Un film poetico quello di Gianni Amelio in concorso per il Leone d’Oro del Festival di Venezia. Un film di primi piani, in cui contano le facce, gli occhi, le rughe, la stanchezza, le speranze e la disperazione. E’ una sceneggiatura senza dialoghi illuminanti, senza ingombranti svolte drammaturgiche. La protagonista dice: “Tu dici ‘mi dispiace’, ma non sai niente di me”. E poi racconta di se stessa qualcosa che avevamo già capito, che era chiarissimo persino a Gianni, interpretato dall’eccellente Sergio Castellitto.
Del protagonista, invece, non si sa e non si saprà nulla tranne che è talmente solo da non possedere un telefonino, perché non avrebbe nessuno da chiamare. Un uomo triste, quello della toccante storia ispirata al romanzo di Ermanno Rea e prima ancora a una vicenda reale. Un uomo che non ha molto a parte un gran senso di responsabilità, una preoccupazione per la vita degli innocenti, un amore ‘naturale’ per il proprio mestiere. Sa riparare le cose lui, sa mettere a posto i pezzi. Non è uno che butta via, che rompe e ricomincia da capo: ha bisogno di salvare il salvabile, di fare in modo che gli oggetti non smettano di essere utili. Ed è questa sua indole profonda, interiore, che lo aiuta a sopportare senza altro scopo ogni fatica, molte difficoltà, miseria, ingiustizie concrete e immaginate.
La giovane Liu ha occhi taglienti, aperti come fessure, antichi come certe stampe cinesi in cui le donne somigliano a bambole perfette di ceramica. Lei guarda diritta, guarda dentro, vede tutto e tutto fa con metodo e pazienza. Sembra impenetrabile, come una sfinge orientale emette sentenze e verdetti. Eppure ha un punto fragile che è la propria integrità di donna, la ferita di un amore meschino che non l’ha saputa trattenere.
La Cina è anche lei sempre in piano, nei giochi dei bambini ai margini delle strade, le case ammucchiate in piccoli vicoli stretti e nebbiosi, il cielo che non si riesce a vedere, nemmeno in piena luce, in pieno giorno. Un Paese d’acqua, quello che attraversano i due protagonisti, in cui l’umidità penetra i vestiti e le ossa fin quando non si cede, vinti dalla febbre e dal troppo camminare. Buonavolontà riesce a portare il suo piccolo importante oggetto nel luogo in cui doveva arrivare. E l’inutilità del suo gesto –generoso e persino eroico- lo vedrà solo il pubblico, nel buio della sala. Lui torna felice, fiero, alla sua vita, sulla strada lunga del ritorno e dice, guardando finalmente in alto, che è andata bene, che è stato molto fortunato. Anche noi lo crediamo, perché a quanti capita di far bene una cosa importante, di salvare –almeno nelle proprie convinzioni- la vita a un pugno di povera gente?
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