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PROSSIMA FERMATA: INDIA?
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Mumbai, la principale città indiana per dimensioni e dinamismo, è uno dei migliori punti di osservazione per cercare di capire l’India che cambia. Una megalopoli che asseconda e guida l’esplosione indiana, chiedendo più globalizzazione, e insieme difendendosene (il nome attuale, “Mumbai”, è un ritorno all’antico, deciso negli ultimi anni per sostituire “Bombay”, di origine coloniale). Da questa città viva e contraddittoria si irradiano la direzione e forse il senso dello sviluppo indiano: proviamo a mostrarne alcune immagini.
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di Stefano Zoja
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In India non esiste un solo modo per dire taxi. Si può dire cool cab, taxi, rickshaw, persino wallahs. Ciascuno corrisponde a un servizio diverso: i cool cab sono macchine più recenti, spesso senza alcuna ammaccatura, sono blu elettrico e hanno l’aria condizionata. Molto più numerosi sono i taxi, le tradizionali auto gialle e nere, quasi dei residuati, perlopiù pieni di bozzi e fasciati di scritte, che non ti spieghi come faccia il guidatore a vedere fuori. Il rickshaw è un triciclo a motore, giallo e nero, una specie di Ape Piaggio col tendalino, che può ospitare fino a tre persone – che possono diventare anche cinque o sei secondo il creativissimo pragmatismo indiano. Infine i wallahs, gli ultimi della catena, un uomo a piedi (o in bici) che traina un uomo seduto: il risciò tradizionale.
Per le strade di Mumbai, spesso sterrate, si trova tanto altro: mucche, questuanti, venditori di arachidi e di polpette piccanti, fogne, cani spelacchiati, odori fortissimi, che si succedono nello spazio di pochi metri sotto la cappa di sole e smog. Pochi isolati più in là ci sono i grattacieli, i centri commerciali, le cravatte e le ragazzine vestite all’occidentale, che sorseggiano un caffè quasi occidentale in riva al mare.
Sono frequenti gli scorci in cui questi due mondi si sovrappongono anche visivamente: sullo sfondo grattacieli più o meno eleganti, cui fanno da modesto primo piano le baracche di latta o stracci. In linea d’aria poche decine di metri, a volte letteralmente affiancati. Fronte e retro di una società che, anche se ci provasse, non potrebbe nascondere le sue infinite, esplosive contraddizioni.
E’ la sensazione principale che ci si porta indietro da Mumbai, quella di un calderone enorme, dentro il quale si mescola di tutto: appartenenze religiose, caste, lingue, stratificazioni sociali e culturali, sacche di ricchezza e spianate di miseria. In occidente quello del taxi è un concetto scontato, tutto sommato univoco; in India no, la società si sta stirando, si amplia e si diversifica e loro si sono dovuti adattare: a ciascuno il proprio taxi, in marcia verso la propria baracca o villetta, secondo i tracciati della sperequazione. Una varietà così stridente e concentrata da essere quasi unica al mondo.
L’India, con oltre un miliardo di abitanti, è la più grande democrazia del mondo, dal momento che la Cina, l’unico paese più popolato, continua a coltivare la sua insofferenza verso i diritti e il pluralismo. I tassi di crescita dell’India sono da diversi anni sui livelli del miracolo cinese o poco meno: 6% all’anno, a traino dell’industria informatica, dei servizi, del tessile. I ricchi sono sempre più ricchi, il ceto medio si espande significativamente, le metropoli si gonfiano di masse speranzose, che lasciano la vita rurale attratte da un boom economico che perlopiù volteggia ai piani alti dei grattacieli.
Con livelli di crescita così elevati esiste una certa redistribuzione della ricchezza, ma le persone che vivono con meno di un dollaro al giorno sono il 34,7%, quelle che arrivano a meno di due dollari sono l’80%. Anche al netto del costo della vita, decisamente più basso che nei paesi occidentali, si capisce che una parte imponente della popolazione conduce una vita che arriva a malapena alla sussistenza, o poco oltre. Per pochi ex braccianti inurbati che realizzano il loro sogno di riscatto economico, migliaia di nuovi arrivati si ammasseranno ai bordi delle megalopoli, rinfoltendo gli slum (le baraccopoli) esistenti o formandone di nuovi. Quando va bene, si tratta di nuovi lavoratori sottopagati e sfruttati, che rinforzano quel settore “informale” dell’economia indiana che contribuisce poderosamente alla crescita del paese.
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Entriamo allora in questi slum, una delle realtà più incredibili che si possano vedere con occhi occidentali. Come quello di taxi, anche il concetto di slum è impreciso: ne esistono di diversi tipi. C’è la casa senza muri, consistente in un tratto di marciapiede, più o meno convenzionalmente delimitato, sopra il quale si trova appoggiata tutta la vita quotidiana dei suoi abitanti. Per terra si cucina, su un fuoco approntato, si mangia e si dorme, magari sopra un pagliericcio. Ci sono seggiole scassate, tavolini, piatti con avanzi di cibo, taniche d’acqua. Sui muri retrostanti si trova appeso di tutto: cesti con le cipolle, immagini di divinità hindu (spesso Ganesh, il dio con la testa di elefante, amato perché rimuove gli ostacoli), poster, sacchetti pieni di ogni cosa. E gli abitanti stanno seduti lì, a volte sorridono se ti avvicini e magari finiscono per offrirti un’aranciata.
Esiste un vero e proprio mercato di queste “case”, che hanno un loro valore in rupie e vengono comunemente vendute e affittate. Un altro caso frequente è la linea di baracche in lamiera ai bordi delle arterie principali, una fila di casupole di latta che può durare anche chilometri senza interrompersi mai. Qui il marciapiede non c’è nemmeno: l’uscio delle case dà direttamente sulle carreggiate, dove ventiquattr’ore al giorno sfrecciano o si incolonnano automobili vecchissime, rumorose e inquinanti. Al fianco di questo fiume di macchine si vive: i bambini si rincorrono, indifferenti alle auto e abilissimi a schivarle, come noi evitiamo i pedoni in un viale affollato. Poi uomini che si lavano per strada, che mercanteggiano, donne che si riposano e chiacchierano. L’acqua corrente molto spesso non c’è, l’elettricità nemmeno.
Visto con occhi occidentali questo sistema di vita è insostenibile, eppure osservandolo da vicino ci si accorge che è una possibilità di vita reale: gli slum non sono emergenza, sono la normalità. Un’altra normalità, che riguarda la maggioranza della popolazione indiana. Uomini e donne che spesso hanno un lavoro, anche se umile e poco tutelato; che non sono riconosciuti dallo stato, perché spesso non figurano in nessun archivio amministrativo; che vivono dentro baracche bollenti d’estate, e puntualmente allagate nella stagione dei monsoni.
Quest’India affianca quella degli informatici, degli ingegneri e dei matematici, celebri ed esportati in un tutto il mondo. Un’India che cresce a ritmi che spaventano i paesi occidentali, ma che non riesce a distribuire il reddito, anche a causa di un incremento demografico ancora incontrollato. In questo paese non solo i soldi circolano male, ma anche quella relativa redistribuzione che esiste non può tenere dietro alle culle che ogni anno traboccano. Per le strade di Mumbai non c’è spazio: uomini, case e baracche lo riempiono tutto, fino all’asfissia. Sui treni del pendolarismo di Mumbai i vagoni di prima e seconda classe sono identici, ma la prima costa dieci volte di più solo perché è meno affollata e si riesce a respirare durante il viaggio. Lo spazio si paga e, chi può, lo compra.
Anche l’aria, letteralmente, si paga. Succede negli “oxygen bar” che stanno sorgendo a Mumbai: locali alla moda occidentale, dove insieme a un cappuccino o a un cocktail si può sniffare un po’ di ossigeno aromatizzato, per dimenticare per qualche attimo l’assedio della puzza di smog o di decomposizione che si respira per strada. Rupie spese per sottrarsi agli odori della crescita incontrollata, diseguale, prodotta da troppe macchine, troppe fogne e pochi servizi.
Naturalmente l’indiano medio è abituato a essere compresso nei treni, a respirare male, a lavori scadenti e mal pagati, magari anche a vivere dentro tuguri. Non ci fa troppo caso e, anzi, ha imparato la tolleranza e l’arte di arrangiarsi, come già era nello spirito di una cultura da tempo abituata a incontri, scontri e sincretismi. Ma le abitudini sono sistemi in (relativo) equilibrio, a volte costruiti su presupposti del tutto malsani. Dimenticarsi o non avere mai saputo quali altri possibilità di vita esistono per la maggioranza della popolazione indiana non può essere una scusa: non per chi governa e nemmeno per chi subisce.
E in fondo è la stessa sostenibilità di questo modello, oltre all’etica, a essere in discussione. Troppi fili sembrano tesi allo stremo, troppe contraddizioni sono scoperte e accelerate dall’ansia di ricchezza e occidentalizzazione della nuova India globale. Un subcontinente enorme e contrastato, un gigante che costruisce grattacieli, dimenticando di avere ancora piedi di latta.
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(24/05/2006)
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