Un incontro seducentemente riuscito questo spettacolo teatrale, Le Città Visibili, tra l’attore Giorgio Albertazzi, anche regista in questo caso, ed il grande Italo Calvino, come già avvenne per Le lezioni americane. Un percorso attraverso la memoria. Anzi le memorie. Al Teatro Argentina di Roma fino al 7 Aprile.
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Ricordi di luoghi frequentati, vissuti, amati. Quelli che lo scrittore ha raccontato, attraverso il dialogo immaginario tra Marco Polo e Kublai Kan ne Le Città Invisibili, e quelli dell’attore in scena che, alternando la lettura di alcuni passi dell’opera di Calvino ai propri ricordi personali, ci trasporta soavemente in un’atmosfera piacevolmente malinconica. Una perenne lode di quella vitalità erotica che pregna l’esistenza terrestre e di cui, magicamente, Albertazzi riesce a darci tutta la sua valenza metafisica.
Non sono semplici ricordi di un vecchio seduttore, ormai ottantatreenne, ma vere e proprie illuminazioni su quei momenti esistenziali che sembrano rivelare il senso di tutto ciò che riguarda noi uomini. Sulla scena l’attore si fa accompagnare dalle note di un pianoforte, sulla sinistra del proscenio, suonato da Marco Di Gennaro. Dall’altra parte una scrivania con due sedie, dove l’attore si mantiene per tutto lo spettacolo. Lo sfondo nero, le luci soffuse ed il tappeto sonoro contribuiscono a rendere il reading ancora più evocativo.
Il montaggio dello spettacolo è molto semplice, come se fosse stato allestito in breve tempo e forse la defezione del Troilo e Cressida di Ronconi, che doveva andare in scena al teatro Argentina dal 1 al 9 aprile, può essere causale. Tuttavia, sarà il carisma e l’esperienza del grande attore consumato, Albertazzi è convincente ed emozionante. Pur se con qualche impappinamento di articolazione, egli sprizza, in ogni momento, tutta la gioia per aver fatto della propria arte attoriale un tutt’uno con la propria vita e trasforma quest’apparente povertà di memoria e di movimenti in qualcosa che gli si addice alla perfezione.
Rilassandosi ed ospitandoci come se fossimo nel suo salotto di casa egli è così naturale, nell’inforcare gli occhiali e cominciare a leggere gli appunti scritti sopra la scrivania, che questo reading sembra più agito che letto. O meglio si ha la sensazione che stia accadendo lì, sul momento, per la prima volta, senza nessuna prova precedente. Una sorta di Happening. L’attore mantiene un costante equilibrio tra naturalezza d’espressione, partecipazione con il pubblico da grande affabulatore e calibrati picchi d’istrionismo recitativo.
Con un tono sussurrato ci trasporta nei suoi ricordi giovanili, nella sua Firenze, e nelle altre città della sua vita, Venezia e Roma, abbondando di riferimenti letterari e facendo entrare, nei suoi racconti, intellettuali e grandi personaggi del secolo scorso come Bernard Berenson, Federico Fellini, Antonio Crast. Un viaggio immaginifico da Villa Tatti alle calle veneziane fino ai fori imperiali. Tra eterni femminini idealizzati, come la signora veneziana davanti la quale estasiarsi, ed archetipici eroi come Giulio Cesare. Mantenendo quel profondo legame con la classicità greco-romana, alla quale tutto il teatro dell’ultimo Albertazzi è dedito. Ed augurandosi, nel finale dello spettacolo, di riempire il secchio dell’umana condizione, prendendo spunto da un racconto di Kafka, con tutta la leggerezza necessaria per entrare nel terzo millennio.
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