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STORIA DI UN GENIO TRA I SECOLI E NEI SECOLI
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Natale comes qui temperat astrum, naturae deus humanae, mortalis in unum quodque caput, vultu mutabilis, albus et alter (Orazio, Epistolae II, 2, 187) [Il genio nostro compagno che governa e regge l’astro della nascita, dio della natura umana, e insieme a ciascun uomo muore, mutevole nel volto, or bianco or nero].
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di Azzurra De Paola
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Genialità e follia. Genialità a dispetto della morale. Dei doveri. Il confine sfumato dei pensieri troppo grandi, come certi quadri di Monet. Non riuscire a stabilire priorità tra le cose. Perché dove tutto è immenso e potente, le cose non si decidono razionalmente. Accadono, semplicemente.
Il genio è l’uomo cui viene affidata questa missione. Probabilmente l’unico in grado di compierla. Il genio che, attraverso i secoli, cambia maschera. Ma non perde di intensità. E travolge tutto ciò che trova sul suo cammino. Senza implicazioni morali. Non per bontà né per cattiveria. Forse con un po’ di vanità. Ma al di sopra del bene e del male, si muove il genio con le sue verità difficili da comprendere. Anche per lui.
"La vita non è governata dalla volontà o dalle intenzioni. La vita è una questione di nervi, fibre, cellule cresciute lentamente in cui il pensiero si nasconde e la passione nutre i suoi sogni. Ma la casuale sfumatura di colore di una stanza o del cielo del mattino, un profumo particolare che una volta amavi e che porta con sé sottili ricordi, il verso di una poesia che ti è capitato di leggere di nuovo, il motivo di un brano musicale che avevi smesso di suonare…ti dico, Dorian, che è da queste cose che dipende la nostra vita" (O.Wilde, Il ritratto di Dorian Gray).
Il genio, attraverso i secoli. Attraverso le intemperie delle definizioni, delle etichette. Delle paure e delle superstizioni. Una maschera per ogni epoca dell’uomo. Anche se al genio è concesso vedere un po’ al si sopra dell’orizzonte.
Al concetto di genio, in ambito estetico, si giunge nell’Inghilterra del Settecento. Il genio viene definito come facoltà che consente un’originalità propria dell’ambito artistico. Prima di allora, il termine genio possedeva tre connotazioni:
- genio come spirito personale o protettore;
- genio come disposizione naturale del carattere;
- genio come abilità innata.
Lo spirito protettore
L’accezione più antica sembra derivare dal verbo latino gignere(=generare). Originariamente il genio, nell’ambito religioso dell’animismo, era lo spirito che presiedeva alla custodia di luoghi ed oggetti- detto Genius Loci-, e rappresentava simbolicamente la forza procreatrice di una famiglia ed era raffigurato nell’immaginario con una cornucopia o con un serpente. Si racconta, nelle leggende riguardanti la nascita di personaggi storicamente illustri come Alessandro Magno o Scipione l’Africano, che il loro Genius fosse un serpente, animale che nella religione italica stava a rappresentare il suddetto Genius Loci, il Genius Familiae e lo spirito del padre. Val la pena ricordare il serpente davanti al quale si trova Enea quando è al cospetto della tomba del padre Anchise. Proprio perché il genio, nell’animismo, era la forza generatrice, il letto nuziale assunse il nome di genialis lectu e lo manterrà fino al XIII secolo.
L’inclinazione naturale del genio
Nell’“Anonimo del sublime”, opera della grecità di autore ignoto, il capitolo trentatreesimo è un’apologia della genialità contrapposta alla perfezione formale del letterato; la poesia volta alla lettura impedisce lo sviluppo dell’entusiasmos in cui consiste l’effetto del sublime. L’autore critica i poeti eruditi dell’età ellenistica, imprigionati in regole formali che esauriscono la creatività personale: egli preferisce una genialità imperfetta ad una perfezione mediocre, poiché il genio è in grado di superare ogni convenzione e dopo il suo passaggio lascia qualcosa di definitivamente cambiato.
”Chi consideri la nostra vita nella sua complessità e veda quanto potere ha su tutti ciò che è straordinario, grande e bello, subito capirà lo scopo per cui siamo nati”. L’unica tecnica del genio è possedere delle doti naturali che si immiseriscono e diventano meno efficaci quando sono inaridite da serie di regole formali; a ciò che è meraviglioso si accompagna sempre un senso di smarrimento. Il magnifico, per quanto terribile, prevale su ciò che è solo convincente e grazioso. Ed è forse l’impeto della sua forza a travolgere ogni esitazione.
Nel II secolo si ampliano le nozioni di genio, il loro estendersi ad altri ambiti è dovuto sia all’affermarsi dello Stoicismo sia all’affermarsi, nel mondo latino, del politeismo greco: il Genio, da spirito personale esterno, diventa una disposizione dell’animo. In un primo momento, si credeva che il genius fosse un dio che nasceva con ciascun individuo e viveva con lui fino alla morte di questi, ricevendo celebrazioni nel giorno del compleanno, ed aveva il compito di controllare il destino del singolo.
Successivamente all’introduzione del concetto greco di demone e all’avvento del cristianesimo, il genius che presiede ad ogni nascita si trova ad avere due possibili nature, una buona ed una cattiva, a seconda che le forze dell’individuo vengano indirizzate verso lo spirito oppure che vengano lasciate in balìa degli istinti. Il genio cattivo è sempre il genio del melanconico, dove per melanconia si intendeva uno squilibrio degli umori corporei a causa del quale l’individuo non era capace di costruire il proprio destino e rimaneva così preda degli eventi del fato.
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L’abilità innata
E’ nel Rinascimento che si modificherà sostanzialmente l’accezione di Genio come entità astratta ed esterna all’uomo. Nell’Accademia platonica di Firenze, recuperando parte della tradizione platonica ed aristotelica, la malinconia diventa una divina follia nonché il segno distintivo delle personalità eccezionali: la malinconia è un dono degli dèi attraverso cui si manifesta il contatto con il divino, è l’aspirazione alla trascendenza attraverso l’arte; questa concezione si riscontrerà da Michelangelo a Durer fino a tutto il Barocco.
E’ attraverso la riabilitazione del termine malinconia da parte dei neoplatonici che si giungerà alla terza definizione di genio come potere creativo, dove l’etimologia del termine risale a ingenium, appunto abilità innata; in questo senso, il genio non si può in alcun modo apprendere e come scrisse il poeta Sidney in Defense of poesie: “A poet no industry can make, if his own genius be not carried unto it; and therefore is an old proverb- orator fit, poeta nascitur-” [Nessun artificio potrà creare un poeta, se a ciò non avrà provveduto il suo genio; e da questo l’antico proverbio- oratori si diventa, poeti si nasce-]. Questa accezione vuole racchiudere all’interno del termine, da un lato, il furor poeticus e, all’altro, l’ars: Emanuele Tesauro nel suo “Il cannocchiale aristotelico” definisce l’ingegno come qualcosa in grado di legare le nozioni separate e remote di oggetti appropriati. Nel Seicento, genio viene a designare la facoltà di avvicinare, attraverso il metodo dell’analogia, cose che invece sono distanti: in questo periodo l’ingegno da canone poetico diventa legge estetica; sarà, infatti, Giambattista Vico a definire la fantasia come l’occhio dell’ingegno.
Il Genio diventa una continuazione del potere della natura nell’arte: non bisogna imitare pedissequamente la natura ma, rimanendo all’interno dei suoi confini, cogliere selettivamente ciò che in essa si rivela di perfetto attraverso il gusto. Kant, nella sua “Critica del Giudizio”, definirà il genio come uno spirito che è dato all’uomo con la nascita, che lo protegge e lo dirige: il genio è talento che dà regola all’arte. Nel Romanticismo, il genio diventa colui che è in grado di recuperare, con l’immaginazione, gli entusiasmi innocenti dell’infanzia senza negare la corporeità e l’istinto. Con le dovute differenze ed i dovuti approfondimenti che si dovrebbero fare, possiamo collocare sulla stessa scia il pensiero hegeliano, per il quale il talento è la qualità innata del genio.
Sarà Kierkegaard, nella seconda metà dell’Ottocento, a rovesciare la positività del genio con una ripresa dei caratteri del demone della cristianità medievale, una figura angosciante in cui la naturalezza di cui è prigioniero il genio non è una nota di merito bensì una continuazione dell’ambiguità intrinseca alla natura stessa. Schopenauer recupererà la concezione neoplatonica dell’entusiasmo e sosterrà che il genio è l’unico in grado di sottrarsi alla volontà e cogliere le idee. Nel Novecento, infine, sarà Bergson uno degli ultimi ad affermare in modo specifico che il genio è colui che sa distaccarsi maggiormente dalla vita e la cui arte non ha altro compito se non mettere da parte le convenzioni che gli impediscono di entrare in contatto con la realtà.
Conclusione
Talvolta si crede- erroneamente- di poter fuggire e sfuggire a ciò che più ci spaventa. Si crede di preferire una vita serena che si muova sul filo sottile della normalità piuttosto che lo squilibrio di una follia artistica. Una scelta legittima, è ovvio. Ma spesso lo sforzo di essere normali ci rende folli. Se si tiene dentro l’emozione forte ed irreprensibile, se si cerca di addomesticare il gatto selvaggio, si rischia di ammalarsi. Uno sforzo esecrante nella sua impossibilità. La quadratura del cerchio.
Le epoche ed i contesti cambiano, i volti che ci circondano non sono mai gli stessi, non ci si bagna mai nello stesso fiume. Ma si riconosce a distanza lo scintillio del talento. Il tintinnio di chi cammina al di sopra di certi canoni. Di certe convenzioni. Probabilmente è vero che la genialità non si può insegnare, è vero anche che sia un’inclinazione naturale. Ma bisogna constatare che- ai giorni nostri- il genio è temuto perché le sue azioni sono imprevedibili. Quanto ci spaventa l’imprevedibilità degli altri?.
Non sapere cosa pensano le persone che abbiamo attorno fa paura. Eppure, ci lega a loro con ragnatele invisibili. Di cui neppure ci accorgiamo. Ma che, quando facciamo per andarcene, ci impediscono di allontanarci troppo. Questa è l’immensità del vuoto. Stare sulla cima di un monte e guardare sotto, sul pavimento di nuvole che sovrasta la vallata. La vertigine delle cose intense. Ma che sono anche le più vere e le uniche che vale la pena vivere. Il genio è colui che ha il coraggio di mollare la presa al momento giusto. E’ colui che ha la forza di gettarsi nelle proprie emozioni senza porsi troppe domande. Ma senza neppure porsene troppo poche. Il genio salta il fosso, quando deve. Sovrasta il nulla e basta a se stesso. Si protende verso gli altri. E li ammalia. E li spaventa. Emozioni contrastanti, dentro e fuori di lui. Non sa e non può giustificare i legami che crea attorno alla sua persona. Lui è la magia di ali cangianti. La criniera del sole in un pomeriggio di ghiaccio. L’onda di stelle e sale. L’immensità del cielo che ci sovrasta. Il mare in tempesta. Se fosse possibile, rinuncereste a tutto questo per un anonimo lago calmo?
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(09/03/2006)
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