Tra i numerosi meriti che la civiltà greca ebbe all’interno del panorama culturale dell’area mediterranea antica ci fu anche quello della diffusione della cultura del vino, la cosiddetta “bevanda di Dioniso”. Questi, Dioniso, era una delle figure mitologiche più antiche del pantheon greco: dio della fertilità, della vegetazione e della vite, le zone originarie della sua venerazione erano disposte lungo le coste dell’Asia minore (il nome Bakcos da cui derivò il termine latino Bacchus è infatti di origine lidia).
Secondo la mitologia greca, Dioniso avrebbe infatti donato il vino agli uomini e avrebbe insegnato loro i metodi di produzione e il suo corretto consumo. In suo onore si svolgevano le feste dionisiache e i culti orfici, nei quali il vino era il protagonista assoluto e dove, talvolta, ci si abbandonava a pratiche orgiastiche, tanto che i romani ne vietarono lo svolgimento proprio onde evitare che si radicassero tradizioni considerate contrarie alla tradizionale sobrietà che doveva caratterizzare lo stile di vita del cives romano.
Le prime testimonianze del consumo di questa bevanda risalgono addirittura all’età micenea, verso la metà del II millennio a.C. con il ritrovamento in taluni scali di frammenti di boccali al cui interno le analisi microbiologiche hanno rilevato la presenza di particelle di vino. Il grande sviluppo che questa bevanda ebbe in tutta l’Ellade fu anche agevolato dalla considerazione che il consumo del vino fosse sintomo di civiltà, da contrapporsi con il mondo barbaro, che invece era solito consumare la birra.
La coltivazione della vite era diffusa uniformemente in tutto il mondo greco, tanto che anche gli ecisti che si imbarcavano dalla madrepatria per andare a fondare nuove colonie in Italia meridionale o sulle coste turche portavano con sé anche tralci di vino da impiantare nelle nuove terre da colonizzare: in un secondo momento, dall’Italia i Greci portarono la coltivazione della vite anche lungo le coste mediterranee dell’Africa, nella Francia meridionale e lungo le coste della penisola iberica.
La nostra penisola prese tra l’altro il nome di Enotria, ovvero il paese dei pali da vite, proprio per lo straordinario sviluppo che ebbe questa coltivazione. Le tecniche di viticoltura prevedevano la coltivazione delle piante a gruppi di tre per volta e legate tra di loro a formare una specie di piramide.
Gli scavi archeologici mostrano però che avveniva anche il percorso inverso, ovvero che in Grecia si bevesse anche vino importato, in particolare dall’Italia. I metodi e le tecniche di coltivazione delle viti, di produzione e di consumo del vino sono riscontrabili sulle decorazione dei vasi, i quali assumevano anche forme e nomi diversi a seconda dell’utilizzo per il quale erano preposti: tra tutti il più importante era il cratere, il grande vaso a forma aperta utilizzato nel banchetto per mescere il vino con l’acqua.
Toccava al simposiarca, il maestro delle cerimonie, il compito di regolare l’andamento del banchetto, stabilendo di volta in volta quanto vino bere, quando berlo e il suo livello di diluizione con l’acqua. I greci erano infatti perfettamente a conoscenza anche degli effetti negativi che l’abuso del vino comportava, tanto che alcune città emanarono addirittura delle leggi per regolarne il consumo.
Per esempio, il vino non andava consumato puro, in quanto provocava effetti indesiderati e negativi, e quindi considerati barbari (si veda a tal proposito il famoso episodio di Odisseo e del ciclope Polifemo, al quale è fatto bere un vino che sarebbe dovuto essere mescolato con ben dieci parti d’acqua per poterlo sopportare). Al consumo del vino erano anche legati i momenti di maggiore comunanza all’interno delle poleis greche: oltre ai banchetti popolari, le principali famiglie cittadine si riunivano all’interno di una sala nel simposio (che letteralmente significa proprio “bere insieme” ), i cui partecipanti mangiavano e bevevano sdraiati sui triclini.
Il simposio non aveva solamente una funzione ludica, bensì anche quella di permettere alle persone appartenenti al medesimo ceto sociale di riunirsi per discutere di temi politici e di scambiarsi le proprie opinioni. Durante il simposio diversi poeti e aedi si alternavano nel cantare e ricordare ai partecipanti la storia comune delle differenti famiglie, in modo da rafforzare il senso di appartenenza dei diversi membri della comunità.
Queste bevute comuni avevano anche un significato religioso in quanto permettevano alle persone di entrare in contatto con la divinità mediante lo stato di ubriachezza, sfruttando adeguatamente le qualità liberatrici del vino. Il banchetto e il simposio si diffusero rapidamente anche sulla penisola italiana e divennero una pratica costante nella vita della comunità. Secondo alcuni filosofi e poeti, addirittura, il vino possedeva la virtù di mostrare la vera natura delle persone e di liberare il senso di verità che albergava al loro interno, da cui il proverbio in vino veritas coniato dal poeta greco Alceo.
I vini greci erano classificati per il loro colore e si dividevano in bianchi, neri e mogano, per il loro profumo, per il quale erano utilizzati diversi tipi di fiori, come la rosa e la viola, e per il sapore, per addolcire il quale si utilizzava anche il metodo del riposo su un letto di uva appassita che rendeva il nettare particolarmente dolce (vino passito). Altri vini presentavano invece un gusto più aspro e acido ed erano classificati come secchi. Il problema principale consisteva nella conservazione dei vini stessi, data la scarsa resistenza all’aria; questi, infatti, tendevano a ossidarsi con discreta velocità e fu introdotto il processo di aggiunta della resina. Ancora oggi uno dei vini greci maggiormente apprezzati è il Retsina, che sfrutta il medesimo processo.
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