E’ stato qualche giorno fa, sulla quarta di copertina di Repubblica, la pubblicazione della foto di due uomini che si abbracciano e si baciano. Un signore in metro resta un minuto intero a guardarla con la faccia immobile. Poi mette via il giornale.
La pubblicità è di Ra-re, marchio d’abbigliamento di proprietà dell’azienda padovana Flash & Partners fino a ieri offuscata nell’anonimato. La foto pubblicata su Repubblica è solo la superstite di una serie di scatti che l’ufficio stesso del quotidiano ha preferito censurare.
Ma la campagna pubblicitaria che porta la firma di Oliviero Toscani aveva già ‘turbato’ le città dall’inizio di settembre con la cartellonistica per strada. A Torino, Milano, Roma, Napoli due sconosciuti dai sorrisi divertiti, gigantemente bidimensionali, giocano a baciarsi e a toccarsi su un divano per sconvolgere e ridicolizzare le tendenze puritane dell’opinione pubblica. Oltre che a vendere quello che hanno addosso.
Obiettivo raggiunto, essendo parlamentari e associazioni precipitati subito nella trappola con proteste e risentimenti. Su richiesta del Mioge, il Movimento Genitori, è stata aperta addirittura un’inchiesta dallo Iap, Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria, che ha concluso censurando la campagna definendola come violenta, volgare e indecente.
‘Imprimere un marchio nella testa della gente’, questo l’intento rivelato dall’amministratore delegato Luisa Bertoncello. Poi se per ‘marchio’ si intenda quello aziendale o il messaggio di una conquista sociale non si capisce. Ma questa ed altre dichiarazioni, come informare i media che i due modelli delle foto stanno davvero insieme nella vita reale, ci fanno sospettare che questa non sia che l’ennesima trovata commerciale. La perversa strategia capace di fondere fiction e reality, sfruttando l’insana curiosità dello spettatore fin anche a renderla morbosa, ha inglobato dunque anche la pubblicità?
Difficile a dirsi, fatto sta che in un paese dove la scomunica papale è ancora schiaffo concreto alla vita pubblica di un individuo, la questione non poteva certo passare inosservata.
Il problema non è la liberalizzazione del mondo omosessuale. Il tema è troppo delicato per essere ridotto a un mucchietto di diritti civili, figuriamoci ad una pubblicità. Il problema è quanto una pubblicità abbia la facoltà di imporre all’immaginario collettivo codici di comportamento magari non riconosciuti come propri anche dalla maggior parte degli stessi omosessuali, con il rischio di alimentare i pregiudizi.
Quello che rende la pubblicità una forma d’arte socialmente rilevante è il non fare della provocazione sfacciata l’unica arma vincente. Da sempre la pubblicità sa essere abbastanza sottile nel fotografare uno stile di vita. Quando anni fa la ‘Coccinelle’ della Volkswagen era immortalata come una macchiolina nera su un grande sfondo bianco, sotto una scritta ‘Think small’ non faceva altro che sottolineare con astuzia l’anticonformismo di una parte della popolazione americana.
Oggi, l’unico anticonformismo rimasto da raccontare, quello sessuale, viene solo spiattellato sotto gli occhi di tutti con faciloneria, al servizio di scopi neanche troppo legati ad una filosofia del prodotto venduto.
Forse dovremmo abituarci all’idea che la mercificazione spietata del sesso femminile è passata di moda, ora qualcos’altro ha già preso il suo posto e dopo qualche protesta diventerà solo normale.
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