Dicono che non siamo in guerra.
I nostri morti ce li servono dietro uno schermo di vetro, tra un pasto e l’altro. Come frammenti di pellicola di un folle colossal americano. Come se gli altri morti non ci appartenessero.
Così decidono che di fronte al rischio dobbiamo essere tutti pronti. Pronti a cosa non si sa. Pronti e basta, perché non c’è altro da fare. Milano sarà la prima città italiana a sperimentare un’autentica esercitazione contro il terrorismo. Venerdì 23 settembre, ore 12 in punto, due bombe faranno finta di esplodere in rapida successione nei pressi della stazione ferroviaria Cadorna e in un vagone della metropolitana.
Più veloci che mai (quasi già lo sapessero), vigili urbani, polizia e protezione civile circonderanno la zona ‘calda’ per garantirne il necessario isolamento e avviseranno il sindaco e l’assessore alla sicurezza.
Mentre poliziotti e magistrati cominceranno a contare i trenta ‘figuranti’ morti e i trecento ‘figuranti’ feriti previsti, cercando contemporaneamente di bloccare i terroristi immaginari, verranno attivati l’obitorio e il reparto di medicina legale.
Circa trecento persone, i cosiddetti ‘residenti in zona’, saranno trasferiti nelle scuole circostanti. Intanto vigili del fuoco, soccorsi, croce rossa e 118 arriveranno in fretta sul luogo, mentre un piano regionale già delineato coinvolgerà Asl e ospedali bloccando la circolazione stradale delle auto pubbliche.
Il tutto completato dall’atterraggio di elicotteri di pronto intervento su Castello Sforzesco.
Dicesi esercitazione militare in città con tanto di applauso finale.
Per chi avesse dimenticato quanto siamo forti, vogliamo urlare al mondo che ci siamo, e se proprio la parola guerra non ci piace metterla lì, sulla stessa bocca spalmata di democrazia, continuiamo almeno a giocare con i soldatini nelle nostre prove davanti allo specchio.
Certo, il sincronismo di tempi e azioni rassicura l’animo del più ansioso cittadino. Tutto procede alla perfezione, una catena di montaggio asettica: niente linee telefoniche intasate, niente brutte sorprese, niente paura. “I cittadini saranno adeguatamente informati e durante l’esercitazione la città vivrà normalmente le sue attività, per non intralciare l’intervento”, confermano gli organizzatori.
Come se il panico non fosse il peggior nemico dell’ ordine.
Da ottobre anche Roma, Torino, Napoli saranno teatro di esercitazioni schematicamente efficienti (almeno speriamo), studiate e modificate dal nostro ministro degli interni in base agli attentati di New York, Madrid e Londra.
La cosa triste, non è certo avere un sistema di sicurezza e soccorsi pronti all’emergenza. Ma ritrovarsi nel bel mezzo di una pagliacciata pubblicizzata, dove più di mille pedine corrono a destra e a manca come da copione sotto il sole cocente di mezzogiorno e gli appunti dei giornalisti, fa pensare.
Lo schiaffo morale che arriva, è dover ammettere di essere costretti alla passiva accettazione di un esercitarsi a sopravvivere contro qualcosa che ci sarà e basta, quasi fosse una calamità naturale o la volontà di una divina provvidenza.
Addirittura si parla della stesura di un opuscolo informativo destinato a tutta la popolazione, con i consigli semplici e chiari sui comportamenti da adottare in caso di eventi di ‘natura terroristica’. I Giapponesi lo fanno per i terremoti. Ma con i terremoti non si può parlare.
Il terrorismo internazionale non può essere ridotto a ‘causa esterna’, rispetto alla quale non possiamo far altro che cercare di sopravvivere.
La minaccia del terrorismo globale è nata parecchi anni fa, quando qualcosa si poteva evitare, quando molti degli odierni sedicenti capi democratici del buon occidente giocavano a fare i burattinai in Asia Centrale e Medio Oriente, entrando in connivenze perverse con i regimi locali, imperdonabili violatori dei diritti della gente comune.
Oggi, gli attentati alle nostre vite non sono che un effetto di quel gioco pericoloso e non finito, solo un aspetto dell’esasperazione di popoli che non ci è ancora stato concesso di guardare in faccia. Ora, presentare esercitazioni e opuscoli come l’unico modo per reagire è un po’ eccessivo. Forse, ogni tanto, sarebbe il caso di parlarne.
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