FREUD E L'OMELETTE
LO STATO DI TRANSIZIONE DI UN'EPOCA

Il Novecento ha lasciato agli individui una libertà di pensiero e movimento inedita. Nella postmodernità tutto è possibile, tutto è frammentario e il senso non emerge da sé. Appunti di (auto)difesa per le fasi di transizione in un’epoca di provvisorietà.
di Stefano Zoja
Il novecento è stato il secolo dell’io. Inizia con Freud che proprio nel 1900 pubblica “L’interpretazione dei sogni”, testo fondante dell’indagine sull’inconscio, che porta alla ribalta della ricerca umanistica e del vissuto personale le pulsioni profonde dell’individuo. Quel sismografo sensibile che è la letteratura registra la scossa: Svevo e Pirandello raccontano la crisi della personalità, Joyce porta alla luce il flusso di coscienza, Kafka trasforma in uno scarafaggio l’individuo tormentato dal senso di colpa. Anche le arti figurative avvertono il nuovo vento: Picasso e Dalì ritraggono la frammentazione dell’esperienza e la visionarietà della psiche, Bunuel mette in scena la vita onirica. Se ne occupa anche la filosofia, mentre nasce la psicanalisi.

L’individuo scopre di avere la testa pesante, piena di desideri e paure prima inesprimibili. Freud gli dà il permesso di conoscerle e viverle, e, anzi, lo ritiene necessario. E col passare dei decenni l’individuo ottiene la libertà di farlo. Le grandi ideologie cadono più o meno bruscamente: i fascismi si disperdono, il comunismo si sgretola, la società si secolarizza. Ma sono tutte le grandi agenzie di socializzazione che perdono presa.

L’individuo sa sempre meno cosa è giusto fare, perché le voci che prima glielo spiegavano o non esistono più o sono sempre meno autorevoli. Ora siamo liberi, ma il prezzo pagato è l’incertezza, lo spaesamento.

I media di massa hanno provato a insinuarsi in questo spazio d’esitazione, fornendo modelli di comportamento, d’identificazione (e, dunque, di consumo). Sono segnali forti, ma confusi e frammentari, spesso inappaganti perché vuoti di valori. Giuste o sbagliate che fossero, le lotte del secolo scorso erano in nome della liberazione, o della supremazia, o della vita etica. La televisione non parla più alla nostra vita profonda, ma a quella epidermica. Non può saziarci, perché non pensa a noi, ma solo a se stessa: è autoreferenziale. Chi le va dietro vive a basso regime.

Nessuno ci fornisce più degli ideali, né delle rotte di navigazione. L’io è libero. Ma se l’io non vuole vivere accartocciato deve relazionarsi con la realtà esterna, col mondo. E com’è il mondo? Complesso, quasi illeggibile.

Le ideologie non ci sono più, il lavoro non è più per la vita e spesso neanche le persone. Le esperienze sono mute, incoerenti, dobbiamo essere noi a unificarle, a creare un percorso di senso. La globalizzazione arricchisce l’esperienza, ma la complica come mai prima. La galoppata della scienza oltre che liberatoria diventa ansiogena.

Su siti o quotidiani d’informazione notizie drammatiche e leggere stanno una a fianco all’altra e, nella nostra testa, una dentro l’altra, disciolte, inconfrontabili. Non è più il mondo a fornirci i significati, anzi si è fatto sfuggente, tremendamente articolato. E, per di più, spesso è freddo, competitivo, violento. Tocca all’individuo dare il senso alla realtà. Superando l’agorafobia prima, il timore della propria inadeguatezza e della diversità poi.


In tutta – troppa? – libertà. Abbracciare tutto questo, con consapevolezza e sentimento, è un compito immane. Che toccherebbe a ciascuno di noi ogni giorno.

E non sembriamo mai soli, siamo interconnessi, collegati a persone e agenzie di conoscenza. Internet, sms, telefono. Uscite serali, pranzi di lavoro, palestre, ascensori. E la vita è frenetica: il lavoro fino alle venti, lo sforzo di divertirci, di abbronzarci, di pigiarci gli uni con gli altri sotto un ombrellone. Meglio alle Maldive, ma va bene anche Follonica. E poi le foto con la digitale, o le istantanee attraverso il telefonino. “Guarda come mi diverto, cosa ho visto, mentretuchissàdovesei”. Ma a chi stiamo parlando? E perché? Forse ci vorrebbe una pausa. Un passo a lato.

Ci vorrebbe di conversare a bassa voce con la vicina di casa, o l’amico di sempre. Ci vorrebbe di osservare curiosi la curvatura dei nostri piedi poggiati sul pavimento. Di rompere l’assedio, staccare il telefono, cucinarci un’omelette alle erbe fini. Prenderci cura di noi stessi, perché il mondo non lo fa più, o meglio non finge più di farlo. Ci ha sollevato da una responsabilità che in realtà ci è sempre appartenuta.

Recuperare uno spazio nostro è un compito assolutamente meno banale di quanto sembri. Dobbiamo saperci astrarre per scegliere, o forse estrarre: estrarci dal flusso dei contratti a termine, degli aperitivi, dei clacson, delle scollature. L’apnea emotiva è un pessimo compagno di viaggio, soprattutto quando vorremmo essere presenti a noi stessi.

Viviamo in un’epoca che ci chiede di scegliere in continuazione. Senza poterci riferire al passato e immersi in un presente che si trasforma con un’accelerazione che stordisce. E sapendo che la responsabilità è nostra, che se sbagliamo ci saremo fatti del male da soli. La vita “a la carte” richiede un petto grande. Spalle che si facciano carico della nostra difficoltà nel leggere il mondo e noi stessi, della nostra fallibilità.

E serve, poi, lasciare intatto un angolo della nostra innocenza. Preservarci dal caos in cui stiamo, ridendone. Sollevarci dalle difficoltà con l’acrobazia che è l’ironia. Non è lasciato a noi il compito di dare un senso alle cose? Non per intero, certo, ma abbiamo una libertà anche in questo: decidere quando e cosa considerare un problema o un gioco. Siamo padroni di adottare l’atteggiamento che vogliamo: anche questa è una difficoltà, ma è insieme un’opportunità.

E la risata è uno scarto dell’intelligenza che evita la paralisi. Muoversi è quasi sempre una salvezza. Finché non si arriva a capire che è proprio questo il bello del gioco. Che la libertà, come a volte si ha difficoltà a pensare, si può cavalcarla più che temerla. Che l’ultimo secolo, anche se si è divertito a pasticciare le mappe di navigazione, ci ha fatto un regalo e non un dispetto.

Tocca a noi, all’ individuo: oggi è più utile il diario di bordo delle vecchie cartine. Spaventati, guerrieri e comici: parafrasando uno dei primi libri di Stefano Benni compare un percorso possibile per districarci dalle secche di quest’epoca. Abbiamo il diritto e la necessità di vivere questi tre stati, per rigirarci fra i polpastrelli tutta la libertà di cui disponiamo.


(07/08/2006)