Il 12 e il 13 giugno 2005 il popolo degli elettori sarà chiamato a votare il referendum sulle cellule staminali.
Nonostante il gran parlare che se ne fa –dibattiti televisivi e articoli di quotidiani- moltissimi non hanno ancora chiaro in che consistono i quattro punti su cui ci si dovrebbe pronunciare.
Al di là delle ideologie, che spesso ostacolano la comprensione delle cose e gettano fumo su questioni delicate come la salute individuale, il referendum riguarda la possibilità da parte della ricerca scientifica di utilizzare cellule staminali embrionali a scopi terapeutici, e anche di modificare la legge attuale sulla fecondazione medicalmente assistita.
Le cellule staminali sono capaci di riprodursi e possono quindi essere utilizzate per la rigenerazione di tessuti e organi. Si dividono in adulte ed embrionali. Mentre quelle adulte, però, sono già caratterizzate (appartengono quindi a tessuti e organi costituiti) e possono essere utilizzate in maniera limitata, quelle embrionali sono “totipotenti”: hanno cioè in se stesse una potenzialità di sviluppo completa. Gli scienziati sostengono che una ricerca abilitata all’uso di queste cellule –senza produrle appositamente ma utilizzando quelle già esistenti- potrebbe aprire la strada alla guarigione di malattie molto comuni, molto vincolanti e non troppo rare come il diabete e il Parkinson.
Va detto, per inciso, che i milioni di cellule staminali embrionali già esistenti e congelate in laboratorio andrebbero destinate alla morte –letteralemente gettate- se non fosse permesso il loro utilizzo a scopo scientifico.
Per ciò che riguarda la fecondazione assistita si tratta solo di rendere la vita un po’ meno complicata a chi affronta la situazione già difficile di una maternità che stenta a verificarsi.
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E’ stato detto mille volte che la nostra società non è più la stessa degli anni ’60, del boom economico, del posto fisso, delle case vere invece di stanze con angolo cottura. Uomini e donne si sposano o si uniscono in coppia sempre più tardi –chi per motivi di studio, chi per il lavoro, chi per motivi sentimentali (non tutti trovano l’amore quando lo cercano)- e i fattori di stress dello stile di vita moderno non aiutano la donna a raggiungere uno stato di serenità adeguata alla gravidanza.
Gli uomini stessi, più o meno per i medesimi motivi, sono sempre più a rischio di impotenza. Fatto sta che con una tecnica di fecondazione che tenesse meno conto dei numeri e più dell’aspetto umano della questione si potrebbero risolvere meglio alcune difficoltà pratiche.
C’è in tutto questo aspetto tecnico un lato che riguarda la coscienza e che ha generato il dibattito –o piuttosto l’assenza di dibattito in favore di posizioni integraliste- di cui in modo confuso si sente parlare.
Si fa di una questione di salute un fatto etico. Si invoca il credo religioso e la salvaguardia dell’embrione. Si vuol sostenere che l’anima di questo piccolo essere vivente –cioè dotato di vita- sia identico alla coscienza della donna che lo porta in grembo, il che farebbe di loro la stessa cosa. Si teorizza, quindi, che la mamma e l’embrione abbiano gli stessi diritti.
Quel che sfugge è che nessuno costringerà mai un cattolico a fare qualcosa contro la propria coscienza, nessuno costringerà una coppia sterile a sottoporsi alla terapia di fecondazione.
Quel che conta ed è in gioco è la possibilità di seguire la propria coscienza e la propria volontà e non quella di altri, che semplicemente la pensano in maniera diversa. La legge, forse, dovrebbe tutelare tutti i cittadini e tutte le convinzioni etiche; dovrebbe non chiudere la strada alla speranza.
Un’ultima nota.
Cos’è un referendum? Che significa “referendum”? Viene dal latino riferire, cioè chiedere in forma di supplica, riportare a qualcuno in modo partecipativo. L’elemento chiave è quindi la partecipazione appassionata della richiesta. Ciò che fa di un uomo il cittadino di uno Stato democratico è la partecipazione alla vita del proprio Paese. La partecipazione è un atto di responsabilità, è una presa di coscienza del pensiero, del proprio modo di vedere le cose.
Partecipare è l’unica “azione” possibile in un contesto istituzionale più ampio in cui, viceversa, quasi tutto si delega. Perché rinunciare?
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