Prendo spunto da una notizia apparsa recentemente su The New York Times per fare alcune considerazioni sulla tentazione, spesso compagna di chi svolge professioni di aiuto, di considerare l’intervento psicologico sempre e comunque valido, anche quando non è richiesto dall’”utente”.
La notizia che voglio citare riguardava la decisione di un gruppo di psicologi statunitensi di partire per le zone disastrate dallo tsunami lo scorso dicembre al fine di assistere psicologicamente i sopravvissuti.
Le autorità locali, però, hanno risposto con un “no, grazie”, perché, ovviamente, sono ben altre le necessità e i bisogni di quelle popolazioni.
Questo atteggiamento da “colonizzatori mentali”, è un ottimo spunto per riflettere, insieme a voi lettori, sull’importanza di quella che, in gergo specialistico, si chiama “analisi della domanda di aiuto”.
Un presupposto fondamentale, da tenere sempre ben presente, è che, a parte i casi di psicopatologie che compromettono seriamente la capacità di intendere e volere, una persona che non chiede aiuto, fondamentalmente, non vuole essere aiutata, ed esistono innumerevoli motivazioni per questo, che tratteremo in un prossimo articolo.
L’atteggiamento di questo gruppo di colleghi americani, secondo i quali le persone sopravvissute all’evento catastrofico avrebbero avuto sicuramente bisogno di un sostegno psicologico, e per di più di uno specifico approccio terapeutico per superare lo stress, esplicita un presupposto alquanto discutibile: “la nostra idea di cosa è necessario per superare un momento fortemente traumatico è quella giusta ed è quella che serve”.
Mi sembra un atteggiamento mentale analogo a quello espresso dalle forze militari, a cominciare da quelle americane, quando dicono al mondo che il loro intervento in paesi stranieri serve a ristabilire l’ordine e riportare la pace.
Fortunatamente non tutti la pensano a questo modo.
Psichiatri e psicologi che negli ultimi anni hanno gestito programmi per la salute in diverse parti del mondo segnate dalle conseguenze di guerre, hanno potuto osservare come il miglioramento delle condizioni psicologiche dipenda quasi esclusivamente dal risollevamento economico e sociale e non dagli interventi psicologici o psicoterapeutici.
Come ho accennato all’inizio, il rischio, conseguente alla cosiddetta deformazione professionale dello psicologo e ancor più dello psicoterapeuta, di pensare che le persone che incontriamo abbiano bisogno di noi, del nostro specifico intervento, è spesso presente anche nei nostri stessi contesti quotidiani.
È un rischio che può rendere “ciechi” e poco empatici. Un antidoto, a mio avviso efficace, è esserne consapevole momento per momento, nell’ambito della nostra professione, e semmai trasformarlo in spunto di autoriflessione sulla capacità di essere in qualche modo “testimoni non coinvolti” quando si aiuta chi chiede aiuto… per andare e sostenere la strada che l’altro vuole realmente percorrere. Provando quindi a porci come esseri umani, prima ancora che come terapeuti.
Invito voi lettori, se volete, a portare il vostro contributo, esprimendo i vostri punti di vista sull’argomento per arricchire il dibattito.
Dott.ssa Maria Rosa Greco
Psicologo clinico e psicoterapeuta della Gestalt
e-mail: greco.mariarosa@libero.it
tel. 338/7255800
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